LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA
Mai più morire
Albert Camus dice che «Un modo facile per conoscere una civiltà è scoprire come vi si lavora, come si ama e come si muore». Noi vorremmo aggiungere anche da come vi si cura, se non c’è umanità nel curare si rischia, senza accorgersi e anche con le più buone intenzioni, di disumanizzarsi.
La progressiva comprensione del fenomeno della pandemia covid-19 e delle sue conseguenze, nel breve e nel lungo periodo, hanno portato l’opinione pubblica, gli esperti e le autorità politiche, ha intraprendere iniziative per contenere o eliminare le dolorose conseguenze psicologiche, emozionali ed esistenziali che hanno travolto il sistema della cura, nel senso più ampio di prendersi cura, secondo l’insegnamento di Papa Francesco, in particolare del nuovo umanesimo delineato nell’enciclica Fratelli tutti. Il teologo brasiliano Leonardo Boff ha scritto nel libro Il creato in una carezza. Verso un’etica universale: prendersi cura della terra, parole toccanti sull’importanza della cura, intesa come vera sapienza di vivere. «La cura previene i danni futuri e rigenera i danni passati. […] Di ogni cosa gli esseri umani hanno e devono aver cura: della vita, del corpo, dello spirito, della natura, della salute, della persona amata, di chi soffre, della casa. Senza cura la vita viene meno». In ambito medico, per limitarci ad esso, la relazione di cura assume un ruolo centrale: una comunicazione chiara e costante col paziente (io spiego, ma decidiamo insieme), un dialogo paritario, umanamente sensibile e aperto, tra il medico e paziente, allargato alla famiglia, hanno un ruolo di per sé curativo, come l’esperienza insegna. Valutazione questa, assai antica, già sostenuta da Gorgia, allievo di Empedocle: «Le parole sono come farmaci, possono curare oppure agire come un veleno». Temi antichi che le scienze odierne confermano: «Le parole sono dotate di un immenso potere, sono in grado di aiutare, di indicare un cammino, di recare speranza o disperazione nel cuore dei malati», così lo psichiatra Eugenio Borgna sintetizza l’importanza e la delicatezza della relazione fra il medico e il suo paziente, fra il malato e i suoi familiari. Alle sofferenze legate al decorso infausto della malattia causata dal virus del covid-19, le cronache dell’anno appena trascorso, hanno ripetutamente evidenziato un’ulteriore sofferenza: morire in solitudine. Eppure la morte, nella sua irriducibilità, appartiene a chi muore. Non dobbiamo dimenticarlo, in nessun caso. L’uomo contemporaneo, pur avendo costantemente la morte sotto gli occhi, specie oggi con il covid-19, la rimuove ogni giorno e ne lede i diritti. Si tratta di numeri impressionanti: quasi due milioni nel mondo, più di mezzo milione in Europa, decine di migliaia di persone in Italia sono morte in solitudine a causa del covid. E molte altre sono morte nella stessa solitudine per altre patologie. È il modo peggiore di morire, per chi se ne va e per chi resta. Senza una estrema carezza, un abbraccio, una parola. La segregazione obbligata dalle misure per evitare il contagio ha finito per condurre i malati a morire senza quella cura integrale, inscindibile con la dignità della morte, in cui la cura del corpo deve andare di pari passo con quella dello spirito. Lo stesso problema, con gravi ricadute psicologiche (depressione, paure fobico-ossessive, rifiuto di cure, deperimento) si è manifestato fra gli anziani nell’ambito della
Possiamo testimoniare tante storie commuoventi a cui abbiamo assistito alla riapertura dei reparti covid e non.
Un ragazzo ventenne, orfano della madre, vive con il padre e con il nonno e si ammala di covid. Immediatamente quando ne ha notizia si isola come può in casa nella propria stanza.
Lui la “sbarca” come una normale influenza con pochi giorni di febbre… se non che quando inizia a stare meglio, sono il babbo e il nonno che iniziano a stare male con i sintomi tipici della malattia da covid. Il ragazzo si sente in colpa perché pensa di essere stato lui ad averli contagiati, ad aver portato la malattia fra le mura domestiche. Mentre lui guarisce e si negativizza al tampone, il padre invece peggiora nelle rilevazioni del saturimetro tanto da dover essere ricoverato in ospedale. Ha una polmonite bilaterale, quadro classico del covid. Nei giorni successivi anche il nonno peggiora al punto da rendere necessario il ricovero. Il padre peggiora ulteriormente e deve essere tracheostomizzato e intubato in rianimazione. Anche il nonno passa momenti critici. Gli operatori sanitari che sempre hanno costantemente confortato e aggiornato telefonicamente il ragazzo lo hanno chiamato. Gli propongono di andare a visitare i propri cari, come parte integrante della cura stessa: «Sarà di aiuto a loro per l’evoluzione della malattia, perché riceveranno da questi incontri una “ricarica affettiva” che li aiuterà». Il nonno al primo incontro ha il casco, sente poco e non lo riconosce all’inizio: poi però con il riconoscimento l’emozione e la commozione sono stati fortissimi. Adesso quotidianamente il ragazzo può andare a trovarli.
In un altro ospedale un uomo viene ricoverato per un peggioramento di un tumore che si presenta in stato ormai avanzato. Risultato però positivo al covid, deve essere trasferito nel reparto relativo senza possibilità di vedere i propri cari. La malattia oncologica progredisce, la fine di questa vita si fa prossima e nessun sollievo solo un groviglio di dolore, paura, rabbia. Poi finalmente grazie a questa delibera la possibilità di poter vedere la propria moglie: «Grazie che sei venuta, è l’unica cosa che mi ha dato sollievo, grazie».
E ancora tante tante altre storie a cui eravamo presenti: la commozione nell’ospedale di Prato dei medici e degli infermieri non era minore a quella dei parenti ammessi alle visite nel reparto covid il 1 gennaio, giorno simbolico della messa in opera della delibera; la tenerezza del medico che, ben protetti, ha permesso una lieve carezza del marito alla moglie; la gratitudine di una donna che ha potuto dare l’ultimo saluto alla sorella mai più vista da tante settimane a causa del covid, pochi giorni prima che morisse. Tutte immagini e racconti che restano indelebili nei ricordi degli assistiti, ma anche degli operatori della cura.
È stato necessario vincere le resistenze che costituivano come una sorta di tabù, contrapponendo le misure di prevenzione del contagio, all’importanza degli aspetti psicologici, emotivi e relazionali che potevano essere integrati nel percorso di cura. Poi finalmente un’Istituzione pubblica è stata capace di far capire che le due attenzioni possono essere complementari e non opposte! E sarebbe bello davvero che da questa partisse un vero e proprio contagio di umanità in tutto il resto del Paese!
Per finire, per sottolineare l’importanza dell’abbraccio, meritano di essere ricordati alcuni brevi versi della poesia di Ada Merini dal titolo Fra le tue braccia: «C’è un posto nel mondo / dove il cuore batte forte, / dove rimani senza fiato, / per quanta emozione provi, / dove il tempo si ferma / e non hai più l’età; / quel posto è tra le tue braccia / in cui non invecchia il cuore, / mentre la mente non smette mai di sognare…».
E per chi è credente quelle “Tue” braccia potrebbero svelarsi come quelle di Colui che è passato tra di noi «sanando e beneficando» tutti coloro che erano nella sofferenza.
di Gianpaolo Donzelli*
e Guidalberto Bormolini**
*Medico, presidente della Fondazione dell’Ospedale pediatrico Meyer
e componente del Comitato nazionale per la bioetica
**Sacerdote, presidente di TuttoèVita onlus