· Città del Vaticano ·

Rete di congregazioni ad Addis Abeba dà un futuro ai più vulnerabili

L’unione fa la forza
(e salva la vita)

 L’unione fa la forza (e salva la vita)  QUO-245
24 ottobre 2023

Abebech, ragazza madre etiope che da Zwai è arrivata ad Addis Abeba in cerca di lavoro, è stata aiutata a far nascere il suo bambino dalle missionarie della Carità, ma poi ha vissuto e studiato taglio e cucito al Mary Help College delle salesiane Figlie di Maria Ausiliatrice e ora lavora in un’azienda di abbigliamento. Ruth, migrante eritrea, ha lasciato il campo profughi di Mai-Aini, nel Tigray, ha bussato al centro per rifugiati del Jesuit Refugee Service nella capitale etiope, e oggi studia da parrucchiera nel centro di formazione del Jrs; se, una volta diplomata, verrà aiutata ad aprire una sua piccola attività, rinuncerà anche a cercare fortuna in Europa. Samuel, cresciuto sulla strada a Mexico, quartiere di Addis, ha detto sì a don Angelo che lo ha portato al don Bosco Children Center e, grazie alla formazione dei salesiani, oggi guadagna 4000 birr al mese (67 euro, ma uno stipendio dignitoso in Etiopia) in una fabbrica di borse di pelle, e vive in una casa in affitto con alcuni amici.

Sono alcuni dei 1500 sfollati interni, migranti “di ritorno” e rifugiati da altri paesi africani, la cui vita è cambiata grazie al progetto pilota avviato alla fine del 2020 ad Addis Abeba dal Global Solidarity Fund, in collaborazione con congregazioni religiose femminili e maschili, con l’obiettivo di lavorare insieme ad aziende private e organizzazioni internazionali per rafforzare il loro impegno nel migliorare la vita delle persone vulnerabili. Il Gsf ha sostenuto la nascita di un consorzio che oggi coinvolge cinque congregazioni religiose, coordinate dalla Commissione socio-pastorale dell’arcidiocesi. Sono salesiani e salesiane (Figlie di Maria Ausiliatrice), suore orsoline, missionarie della Carità e gesuiti (attraverso il Jesuit Refugee Service). Ogni congregazione, con le sue specificità, ha un ruolo nel creare un percorso che ha permesso a tanti beneficiari di acquisire, con la formazione professionale, competenze per entrare nel mercato del lavoro locale, assunti in un’azienda o avviando una propria microimpresa.

Le missionarie della Carità, nella rete inter-congregazionale, si occupano delle cure sanitarie, soprattutto per le tante donne sfollate dalle zone rurali dell’Etiopia o per la guerra da poco conclusa nella regione del Tigray, ma anche di quelle che vengono espulse dai paesi arabi del Golfo dove erano emigrate dopo esperienze traumatiche. Molte arrivano ad Addis Abeba con gravidanze indesiderate o dopo essere state abbandonate dai compagni; le suore le assistono gratuitamente nel parto, e riescono a convincere le giovani che non vorrebbero tenere i figli. Le madri e i piccoli vengono accolti per alcuni mesi in strutture come il Nigat Center, e da lì indirizzate, con l’aiuto degli assistenti sociali, a corsi di formazione dalle suore salesiane (design di moda, assistenza domestica o informatica), dai salesiani (lavorazione del cuoio, falegnameria, design grafico, saldatori, elettricisti e tipografi), dalle suore orsoline (produzione di abbigliamento) o dal Jesuit Refugee Service (informatica, ristorazione, parrucchiere e manicure). Alcune di queste congregazioni, come salesiane, salesiani e gesuiti, si occupano dell’inserimento lavorativo dei diplomati e delle diplomate, con il Jrs che ha un’ampia esperienza nel sostegno all’avvio di microimprese.

Migranti e profughi da altre nazioni africane — che vanno ad aggiungersi agli oltre 4 milioni di abitanti della capitale dell’Etiopia, in continua espansione — trovano una prima accoglienza anche nel centro per rifugiati di Addis Abeba del Jrs, come Ruth, che ci racconta di aver lasciato l’Eritrea perché voleva «cambiare la vita» della sua famiglia. Come lei, sono circa 62.000 gli eritrei arrivati ad Addis Abeba, ci dice Solomon Brahane, direttore del Jesuit Refugee Service in Etiopia, soprattutto a causa del conflitto nel Tigray, mentre altri 11.000 sono migranti yemeniti, sudanesi, sud sudanesi, congolesi e altre nazionalità. «Dal 2017 il governo saudita ha avviato una politica di rimpatrio e di espulsione dei rifugiati dall’Etiopia», spiega invece Solomon Dejene, responsabile del progetto Gsf in Etiopia: «Così ogni mese circa 40.000 etiopi rientrano dall’Arabia Saudita. La maggior parte di essi non ha più nulla. Il governo dà loro una piccola somma di denaro per tornare a casa, ma molti restano in città. Li stiamo accogliendo per offrire nuove possibilità, formandoli con l’aiuto delle diverse congregazioni».

È ciò che è accaduto a Jerusalem, rientrata in Etiopia dopo un’esperienza dolorosa in un paese arabo del Golfo, che incontriamo al Nigat Center, una struttura dei salesiani data in uso alle missionarie della Carità, aperta nell’ottobre 2022, che accoglie trentotto donne sfollate con i loro bambini. Al Mary Help College, Jerusalem e le altre giovani mamme del Nigat Center hanno studiato o ancora studiano taglio e cucito, assistenza domestica e informatica. Le suore salesiane accolgono nel loro asilo i piccoli di allieve ed ex allieve.

Un altro centro di formazione nel settore dell’abbigliamento è il collegio Sitam delle suore orsoline dove incontriamo Bethlehem, migrante interna da Bole Subcity, madre di quattro figli che, una volta diplomata, ha avviato la sua attività con l’aiuto dell’autorità locale. «Mi hanno dato amore, mi hanno dato capacità e conoscenze», ci dice: «L’unica parola che ho è grazie. Se avessi un sostegno finanziario, per acquistare macchine da cucire e soprattutto i materiali di consumo, potrei ampliare la mia attività e dare lavoro anche ad altre persone che si stanno diplomando».

Nel centro San Michele, che ospita gli uffici della Commissione socio-pastorale dell’arcidiocesi di Addis Abeba, i responsabili delle diverse congregazioni coinvolte nel progetto si riuniscono per valutare come passare da una fase sperimentale a una più stabile. È stato anche firmato un accordo con una banca e un’altra istituzione finanziaria per fornire microcrediti ai migranti che vogliono avviare un’attività autonoma. Qui incontriamo il responsabile della commissione, don Petros Berga, che ci ricorda come in passato «ogni congregazione, con il proprio centro di formazione, lavorava solo individualmente». Ma ora, «grazie a questo programma del consorzio Gsf, stanno lavorando insieme e sono più forti di prima. Siamo riusciti a formare più di 1500 giovani e più del 70 per cento ha trovato lavoro in questo periodo del progetto».

È stato creato il polo unitario per la formazione, «l’hub per l’inserimento lavorativo, e poi l’hub per la creazione di posti di lavoro e l’autoimpiego. Ma anche il polo sanitario». Don Berga è convinto che sia importante continuare «questo buon lavoro a beneficio dei giovani e delle donne che hanno bisogno della nostra assistenza. Si tratta di un progetto importante perché salva la vita. Il governo e le altre istituzioni, con le aziende che stiamo contattando, sono molto favorevoli al progetto perché diamo un’ottima formazione a questi giovani e alle donne. Nella prossima fase speriamo in un programma triennale; con l’aiuto del Global Solidarity Fund vorremmo formare 10.000 beneficiari».

di Alessandro Di Bussolo
da Addis Abeba

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