Verso il Giubileo
Tra profezia e realtà
Papa Francesco, l’11 febbraio scorso, ha indirizzato all’arcivescovo Rino Fisichella, pro-prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione, una lettera sul Giubileo del 2025. Nella missiva il Pontefice si richiama alla storia dei giubilei: milioni e milioni di fedeli hanno saputo attingere al tesoro spirituale della Chiesa. In modo particolare viene ricordato il Giubileo straordinario della Misericordia (2016), «che ci ha permesso di riscoprire tutta la forza e la tenerezza dell’amore misericordioso del Padre, per esserne a nostra volta testimoni». Successivamente, Papa Francesco ricorda l’esperienza tremenda e dolorosa della pandemia e ne ricava un insegnamento profetico: «Dobbiamo tenere accesa la fiaccola della speranza che ci è stata donata, e fare di tutto perché ognuno riacquisti la forza e la certezza di guardare al futuro con animo aperto, cuore fiducioso e mente lungimirante. Il prossimo Giubileo potrà favorire molto la ricomposizione di un clima di speranza e di fiducia, come segno di una rinnovata rinascita di cui tutti sentiamo l’urgenza. Per questo ho scelto il motto Pellegrini di speranza». Le migrazioni, poi, dovute alla povertà e alle guerre spingono l’attenzione dei credenti verso le radici del giubileo che si trovano nelle pagine bibliche, che invitano alla giustizia sociale, alla libertà e alla solidarietà.
Il nome giubileo nasce da un piccolo equivoco. In Lv 25, 11 — secondo la traduzione Cei del 2008 — l’autore sacro dice che «il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo (in ebraico, yôbēl)». Quando san Girolamo traduce il brano in questione, dall’ebraico in latino, non traduce, ma traslittera il vocabolo semitico con iobeleus (questo vocabolo si trova correttamente oggi nella Nova Vulgata). Il vocabolo è un calco ebraico sconosciuto alla lingua latina. Ciò ha comportato una piccola avventura testuale. Purtroppo, come succede negli antichi manoscritti, gli amanuensi, dove non capivano, facevano rientrare il vocabolo nei loro schemi culturali e il iobeleus di san Girolamo è diventato iubileus — così, infatti, è testimoniato nella Vulgata Sisto-Clementina —, facendo derivare il vocabolo da iubilum, gioia, allegria.
Nonostante la piccola avventura nominale, il giubileo resta una istituzione biblica veterotestamentaria molto interessante. I testi che ne parlano sono fondamentalmente tre: Lv 25, 8-55, Lv 27, 16-24 e Nm 36, 4. Il più antico sembra essere Lv 25, 8-55 — il testo appartiene alla “legge di santità” (Lv 17, 1-26, 46) — e può essere collocato più o meno dopo la fine dell’esilio di Babilonia. Gli altri due testi sembrano dipendere da questo e, perciò, sono leggermente posteriori. Geremia non conosce la norma di Lv 25 perché in Ger 34, 14, dove parla della liberazione degli schiavi, cita Dt 15, 12-13 e non Lv 25. Sembra apparentemente che il profeta Ezechiele conosca la norma sul giubileo perché in Ez 46, 17 si fa cenno all’anno dell’affrancamento (derôr, vocabolo presente in Lv 25, 10). Gli specialisti ci dicono che il brano di Ezechiele è un’aggiunta tardiva al testo del profeta. Diverso è il caso di Is 61, 1-2 dove l’autore sacro accenna a un anno di grazia e annuncia la liberazione (derôr) dei prigionieri. Sappiamo che il Trito-Isaia è postesilico. Il testo isaiano è citato da Gesù nella sinagoga di Nazaret in Lc 4, 18-19, dove il Maestro dichiara che la profezia si è avverata nella sua persona. Le testimonianze bibliche sul giubileo sono pressoché inesistenti, fatto salvo Is 61 e il testo tardivo di Ez 46. I libri storici non ne parlano e nemmeno i sapienziali. Questo dato ha indotto molti specialisti a pensare che il giubileo ebraico fosse più una speranza che una realtà.
Le caratteristiche del giubileo ebraico sono molteplici e anche parecchio discusse perché sono apparentemente molto semplici, ma non sempre altrettanto chiare. L’inizio del giubileo — al decimo giorno — veniva suonato il corno (in ebraico, šôfâr): «Conterai sette settimane di anni, cioè sette volte sette anni; queste sette settimane di anni faranno un periodo di quarantanove anni. Al decimo giorno del settimo mese, farai echeggiare il suono del corno; nel giorno dell’espiazione farete echeggiare il corno per tutta la terra» (Lv 25, 8-9). Il cinquantesimo anno, però, cade subito dopo i sette cicli di anni sabbatici. Il riposo della terra è prescritto sia per l’anno sabbatico sia per l’anno giubilare. È possibile? A questa domanda risponde Lv 25, 20-22: «Se dite: Che mangeremo il settimo anno, se non semineremo e non raccoglieremo i nostri prodotti?, io disporrò in vostro favore un raccolto abbondante per il sesto anno ed esso vi darà frutti per tre anni. L’ottavo anno seminerete e consumerete il vecchio raccolto fino al nono anno; mangerete il raccolto vecchio finché venga il nuovo». L’anno giubilare era vissuto alla luce di tre principi. Il primo riguardava il riposo del terreno. I campi dovevano essere posti a maggese (Lv 25, 11). Il secondo principio riguardava il ritorno dei beni immobili (terreni e case) al proprietario originale (Lv 25, 23-34). Il terzo, infine, riguardava la libertà: ogni israelita — se schiavo — doveva tornare libero (Lv 25, 35-55).
Come è stato visto, il primo principio (il maggese) poneva dei problemi di tipo alimentare ai quali rispondeva Lv 25, 20-22. Poneva anche dei problemi teologici: la terra è di Dio, non dell’uomo. In Lv 25, 23, infatti, Dio afferma: «Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini». La terra, dunque, è di Dio e per questo motivo, se la terra deve tornare al suo legittimo proprietario, il credente non può appropriarsene. Ne consegue che nell’anno del giubileo non si semina né si miete e neppure si vendemmia (cfr. Lv 25, 11). Con il secondo principio, applicato anche nell’anno sabbatico, i beni fondiari (case e terreni non urbani) ritornavano ai proprietari originali (o ai loro eredi), che per motivi vari erano stati costretti ad alienarli. Dal primo principio scaturivano delle norme (cfr. Lv 25, 14-17.23-34) che presiedevano la compravendita e la determinazione del valore del campo in rapporto al tempo della successiva scadenza dell’anno giubilare (o sabbatico). Questa normativa che presiedeva alla periodica restituzione dei beni fondiari, avrebbe dovuto scoraggiare nei ricchi ogni velleità di possedere latifondi per sempre. Dal terzo principio scaturiva la libertà degli schiavi ebrei. Diventato schiavo per difficoltà e impossibilità finanziarie, l’ebreo riacquistava la libertà, seguendo una serie complicata di norme (cfr. Lv 25, 35-43).
Poiché l’anno giubilare — secondo gli specialisti — non sarebbe mai stato praticato, è verosimile che abbia un profondo valore profetico: ci sarà un tempo voluto da Dio in cui avverrà la liberazione dell’uomo da qualunque schiavitù (peccato, malattia, morte, schiavitù, ecc.), compresa quella del possesso e della ricchezza. Nella sinagoga di Nazaret — come già detto sopra — Gesù riprende il brano di Is 61, 1-3d: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4, 18-19). «L’anno di grazia del Signore» è l’anno giubilare, è il tempo del Messia dove la profezia veterotestamentaria si avvera nella sua totale pienezza. Gesù stesso, che vuole la misericordia e non il sacrificio (cfr. Mt 9, 13; 12, 7), ne dà conferma: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi» (Lc 4, 21). Il Giubileo, dunque, è prima di tutto l’anno di grazia di Gesù Cristo.
Il primo giubileo cristiano viene celebrato nel 1300, per volontà di Bonifacio viii con la bolla Antiquorum habet fida relatio (22 febbraio 1300; si ricordi che allora l’anno iniziava il 25 marzo secondo l’indizione ab Incarnatione). Veniva concessa l’indulgenza plenaria a chi visitava le basiliche di San Pietro e di San Paolo fuori le mura. Si tratta di un impegno non semplice: i romani dovevano visitarle entro l’anno, trenta volte, mentre i pellegrini, quindici. Il giubileo doveva tenersi ogni cent’anni. C’è tuttavia una testimonianza, ma priva purtroppo di ulteriori riscontri, presente nel De centesimo sive Jubileo anno liber del cardinale Jacopo Caetani degli Stefaneschi, di un vecchio che confida a Papa Bonifacio di essersi recato, da bambino (7 anni), con il padre, davanti a Innocenzo iii il primo di gennaio del 1200 per ricevere l’indulgenza dei cent’anni. Qualche storico ritiene che il giubileo di Bonifacio sia stato preceduto da altri momenti in cui la misericordia di Dio è stata ampiamente offerta ai fedeli. Ricordano l’anno santo di san Giacomo voluto da Papa Callisto iii e celebrato nel 1126. Ricordano anche Onorio iii che, su richiesta di san Francesco d’Assisi, istituì il “Perdono d’Assisi”, l’indulgenza plenaria a chi avrebbe visitato la Porziuncola dal mezzogiorno del 1° agosto alla mezzanotte del 2 agosto. Ricordano, infine, la Bolla sul perdono (1294) di Papa Celestino v sulla perdonanza ottenibile con il pellegrinaggio alla chiesa di Santa Maria in Collemaggio (L’Aquila) nei giorni 28-29 agosto. Lo stesso Papa concesse l’indulgenza plenaria per la città di Atri (a metà strada tra Teramo e Pescara). La misericordia di Dio che la Chiesa dona ai fedeli, secondo i modi legati ai tempi, è veramente senza limiti.
Già nel 1350, Papa Clemente vi per attenersi al giubileo ebraico, stabiliva di tenere il giubileo cristiano ogni cinquant’anni. Papa Urbano vi, pochi anni dopo, abbassò l’intervallo a trentatré anni (pari a quanto si riteneva fosse vissuto il Signore Gesù). Papa Paolo ii, un secolo e mezzo circa dopo Bonifacio viii, ridusse ulteriormente l’intervallo di tempo fra i giubilei a venticinque anni. Non tutte le cadenze sono state rispettate. Non si sono celebrati i giubilei del 1800 (Pio vi, prigioniero in Francia morì alla fine del 1799 e il successore, Pio vii, venne eletto nel 1800), del 1850 (Pio ix era stato riportato a Roma il 12 aprile 1850, dopo la caduta della Repubblica romana), del 1875 (annunciato, ma mai attuato per ragioni di contingenza politica). Oltre ai giubilei ordinari ci sono stati lungo la storia anche i giubilei straordinari. Il primo è stato nel 1423, voluto da Martino v, per il ritorno del papato da Avignone. Altri due, nel 1585 (Sisto v) e nel 1655 (Alessandro vii) per l’inizio dei rispettivi pontificati. Nel 1745 Benedetto xiv volle il giubileo per celebrare la pace fra i principi cristiani. Oltre al giubileo straordinario del 1886 (Leone xiii), Pio xi volle il giubileo del 1900° anno della Redenzione (1933-1934). Paolo vi indisse il giubileo del 1966 per la conclusione del concilio Vaticano ii, mentre Giovanni Paolo ii lo volle per il 1950° anno della Redenzione (1983-1984). Benedetto xvi volle celebrare l’anno di san Paolo in occasione del bimillenario della nascita dell’apostolo delle genti (28 giugno 2008 - 29 giugno 2009). Di Papa Francesco si hanno il giubileo straordinario della Misericordia per il cinquantesimo della conclusione del Vaticano ii (2015-2016) e il giubileo straordinario lauretano (8 dicembre 2019 - 10 dicembre 2021), passato un po’ sotto silenzio (pandemia). Probabilmente ci sarà il prossimo giubileo straordinario nel 2033-2034 per i duemila anni della Redenzione.
Il primo e più significativo rito del giubileo è l’apertura della Porta santa. Il giubileo del 2025 inizierà il 24 dicembre 2024, quando Papa Francesco aprirà la Porta santa di San Pietro. Successivamente verranno aperte le Porte sante delle maggiori basiliche romane. Il giubileo si concluderà il 24 dicembre del 2025 con la chiusura della medesima Porta. Nella bolla di indizione, che sarà pubblicata il 9 maggio, verranno precisate tutte le date del giubileo.
L’apertura della Porta santa ha diversi significati. Il primo, in assoluto, si trova nelle stesse parole di Gesù: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore... se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10, 7-10). Solo in Gesù c’è la salvezza. Il secondo rito è l’acquisizione dell’indulgenza plenaria. Si tenga presente che la dottrina e la pratica delle indulgenze nella Chiesa sono strettamente legate agli effetti del sacramento della Penitenza. Per indulgenza plenaria — che può essere applicata ai vivi e ai defunti — la Chiesa intende la remissione dinanzi a Dio di tutta la pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, che il fedele, debitamente disposto e a certe e determinate condizioni, acquista per intervento della Chiesa. Questa, come ministra della redenzione, dispensa e applica autoritativamente il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi. Strettamente e naturalmente connessa al sacramento della Penitenza e all’indulgenza c’è la partecipazione attiva all’Eucaristia. Il terzo rito è il pellegrinaggio che nelle sue forme concrete viene di volta in volta determinato dai documenti magisteriali. La meta classica sarebbero le basiliche giubilari di Roma, ma anche quelle di Terra Santa e altri luoghi specifici indicati come idonei all’acquisizione dell’indulgenza. Infine c’è la preghiera (anche per il Papa e secondo le sue intenzioni), la professione di fede e le opere di carità che coronano i riti precedenti.
di Renato De Zan
Docente emerito del Pontificio Istituto Liturgico Sant’Anselmo (Roma)