La leggenda nera
La ricorrenza giubilare non poteva non provocare reazioni di segno opposto, tra esaltazione e polemica, nei tanti cronisti che di quell’evento lasciarono memoria nei loro scritti. Se pensiamo alla lunga serie di accuse lanciate contro il pontefice nei processi postumi abilmente orchestrati dal re di Francia Filippo iv il Bello, non sorprenderà certo che una tra esse sia stata quella che Bonifacio viii imbastisse il Giubileo «per raunar denari e tesoro».
È vero che accenni alla questione non mancano certo tra i testimoni dell’epoca, sia tra quanti miravano a sottolineare l’affluenza e la generosità delle folle, sia tra quanti tendevano invece a screditare la Chiesa e il pontefice, rimarcandone l’avidità. Ma è possibile dire qualcosa di certo su una materia tanto incandescente? Alcuni cronisti riferiscono d’ingenti cifre quotidiane, ribadendo spesso di aver visto le cose con i propri occhi, ma è scontato pensare che essi estendessero all’intero anno la situazione di alcuni giorni. In effetti, le offerte raccolte nei giorni delle grandi feste, quando la calca era maggiore, non potevano certo equivalere a quelle dei periodi ordinari né — ancor meno — ai cosiddetti periodi morti.
Dalla fantasmagorica cifra di un tardo cronista, secondo il quale tutto l’affare avrebbe fruttato alla Chiesa ben diciassette milioni di fiorini, ad altre più vicine alla realtà, il panorama si presenta piuttosto vario. Ancora una volta abbiamo comunque, nel Libro sul centesimo anno o Giubileo del cardinale Jacopo Stefaneschi, una risposta ufficiale e — va detto subito — credibile, perché passibile di verifica. Scrive infatti lo Stefaneschi: «E perché nessun aspetto sia dimenticato, i segni tangibili della devozione recarono anche qualche materiale vantaggio alle basiliche. Quegli altari, infatti, i più frequentati di tutto il mondo, che da tempo procuravano anno per anno con le offerte dei pellegrini, per quello di S. Pietro, trentamilaquattrocento cinque [si tratta però, qui, di una cifra di fantasia, aggiunta da una mano posteriore su un rigo che era stato lasciato in bianco] fiorini d’oro, in quest’anno centesimo ne resero, quello del Principe [degli apostoli], trentamila, quello del Dottore [delle genti] circa ventun mila, non in grandi donativi d’oro o d’argento, ma in spiccioli di moneta corrente di ciascuna provincia, benché non tutte le offerte, per le esigenze dei bisogni impellenti e della povertà, fossero versate. Devotamente offerte, devotamente si spendano per acquistare con quel denaro, dietro ordine dello stesso Sommo Pontefice, castelli, casali e poderi di diritto e proprietà delle basiliche e per la crescita poi coi loro proventi del culto e dei doveri verso Dio e verso gli apostoli».
Monete di piccolo conio: offerte di poveri, quindi, come i due spiccioli della vedova al tempio (Marco 12,42). Lo Stefaneschi si trova infatti costretto a riconoscere che i sovrani europei avrebbero dovuto arrossire, «essi che, lungi dall’imitare i primi germogli dei Gentili, i Re Magi, non vennero a visitare nella persona dei suoi apostoli Gesù, (…) né ad offrirgli doni». Dicevamo che la somma da riferita dal cardinale è senz’altro verificabile. Come faceva infatti osservare, già novant’anni or sono, Pietro Fedele in un saggio sui giubilei del 1300 e del 1350, quelle cifre trovano puntuale riscontro nei Registri dell’Archivio della basilica vaticana dove, «nel Decreto Capitolare del 14 gennaio 1301, pochi giorni dopo chiuso il Giubileo, è notato quanto fu speso sia da Bonifacio viii , sia dal Capitolo per l’acquisto di varie tenute».
Trentamila fiorini d’oro in San Pietro e ventun mila circa in San Paolo, in gran parte reinvestiti a beneficio del patrimonio delle due basiliche. La vera ricchezza di quel giubileo consistette proprio nella fede e nella generosità dei semplici, come quella povera vedova che meritò di ricevere l’elogio di Gesù... (felice accrocca)