· Città del Vaticano ·

Lettere dal Direttore
Addio a Massimo Cotto

Nei suoi occhi lieti
il racconto del rock

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03 agosto 2024

Sul suo profilo di Whatsapp c’è una foto con Massimo che indossa una maglietta nera con al centro un teschio dorato. E a quel teschio, alla morte, Massimo fa la linguaccia. L’altro ieri, nella notte tra il 1° e il 2 agosto, è stata la morte a fare una linguaccia, come usa fare (è «un’antica usanza» per dirla con Gaber), a Massimo Cotto. Proprio lui, astigiano di 62 anni, che si riteneva immortale e parlando di sé diceva: «Morirà il giorno in cui la sua squadra del cuore, il Torino, vincerà nuovamente lo scudetto. Per questo, a buona ragione, si ritiene immortale». E aveva ragione. Ce lo ricorda tra gli altri questo verso, immortale, della Szymborska: «Non c’è vita che / almeno per un attimo / non sia stata immortale. / La morte è sempre in ritardo di quell’attimo». Massimo ha vissuto non un attimo ma tutta la vita facendo la linguaccia alla morte. In quello stesso profilo di whatsapp c’è poi una citazione «and these romantic dreams in my head» che è tratta da No Surrender di Bruce Springsteen, nessun autore e nessuna canzone più idonei per provare a dire qualcosa oggi, ancora increduli di fronte alla notizia diffusa dai giornali. Dice così Springsteen, uno dei grandi amori di Massimo, in quella strofa: «Io voglio dormire sotto cieli di pace / Nel letto del mio amore / Con una terra sconfinata nei miei occhi / E questi sogni romantici nella mia mente». E poco prima aveva cantato «abbiamo imparato più da un disco di tre minuti / che da tutto quello che abbiamo appreso a scuola». Massimo aveva imparato tanto, tanta vita, dalle canzoni di Springsteen e dei tantissimi altri cantanti rock che aveva amato e fatto amare a un pubblico sempre più vasto innamorati non solo di quella musica ma di come Massimo riusciva a raccontarla, a porgerla. È questo il verbo giusto, perché Massimo aveva garbo, e finezza. Una passione enorme e una competenza assoluta, ma soprattutto una gentilezza, un modo discreto di fare giornalismo, affermazione che oggi può sembrare un ossimoro. E poi, soprattutto, ironia, che vuol dire innanzitutto autoironia. Era divertente Massimo, allegro, positivo, non c’era mai sarcasmo o amarezza, mai avvertivi l’artiglio della noia. Gli piaceva fare quello che faceva e questa sua gioia era contagiosa. Ci siamo incrociati poco di persona, ma, lo canta Dylan in I’ll remember you, «C’è certa gente che / non dimentichi, / anche se li hai visti / solo una volta o due» e così è stato tra me e Massimo. Nel 2002 lo chiamai come relatore a un convegno di BombaCarta su Bruce Springsteen e scattò subito la scintilla dell’amicizia. Ci legava l’amore per il rock ma c’era qualcosa di più, c’era lui, la sua “pasta” umana. Così quando ci rincontravamo, anche dopo decenni, riprendevamo il discorso come se lo avessimo interrotto pochi minuti prima. Ora l’interruzione è stata più forte, violenta. Ma c’è anche dolcezza in tutto questo, quella dolcezza che Massimo diffondeva con la sua presenza. Lo voglio quindi salutare cercando di ricambiare tutto quello che mi ha dato, con un altro verso di No Surrender, «nessuna ritirata, nessuna resa», del nostro comune amico Springsteen: «Tu dici che sei stanco, che vuoi solo chiudere gli occhi / E seguire i tuoi sogni fino in fondo». Continua a seguire i tuoi sogni romantici, Massimo e, come ti ha detto la tua amatissima Chiara: «Continua a soffiare nel vento. Nessuno ti dimenticherà mai, nemmeno per un istante. Te lo prometto».