· Città del Vaticano ·

DONNE CHIESA MONDO

Chi sono le donne che lasciano la chiesa, e perché
Non solo quarantenni, ma anche della Generazione Z

Il silenzioso esodo

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07 settembre 2024

«Non sono io che ho lasciato la Chiesa. È stata lei a lasciarmi. Anzi non mi ha mai accolta veramente. Mi ci è voluto tempo per capirlo. Poi, d’un tratto, mi è apparso chiaro. Ricordo il momento esatto: guardavo in tv il funerale di Giovanni Paolo ii . Erano immagini commoventi. Qualcosa, però, mi disturbava. Poi, di colpo, la rivelazione: erano tutti uomini. Dove sono le donne?, mi sono chiesta. E continuo a domandarmelo. Non è stato facile smettere di considerarmi cattolica. All’inizio mi sentivo in colpa, era come tradire la mia famiglia. Ancora, a volte, mi manca la comunità. Non posso tornare indietro, però. Le mie figlie, che hanno uno sguardo più distaccato, mi hanno aiutato a vedere le cose con più chiarezza. Perché dovrei essere parte di un’istituzione che tiene le donne ai margini e oltretutto giustifica questa esclusione con ragioni dottrinali e teologiche?».

Nelle parole di Marta, insegnante quasi 60enne, riecheggia il dolore di molte.

Quello di Sabina, 46enne, libera professionista: «L’altro giorno non ce l’ho fatta più e sono uscita. Le parole dell’omelia erano così saccenti, vuote, irritanti… Il sacerdote parlava di Adamo ed Eva ma quest’ultima proprio non la conosceva. Eppure si sentiva in diritto di parlare per lei e per tutte: le donne vogliono questo, le donne sono portate per quest’altro, le donne sono capaci di quest’altro ancora». E di Lina, operatrice sociale 38enne: «Volevo battezzare il mio figlio maggiore. Non so bene perché, è stato un impulso. Quando l’ho detto al parroco, ha cominciato a farmi il terzo grado. In realtà ero io a volergli fare delle domande sul Vangelo, Gesù, la fede. Avevo frequentato il catechismo da bambina, poi più nulla. Ora volevo capire per riavvicinarmi… Non me ne ha dato il tempo. Poiché ero sposata solo con rito civile – ha subito precisato – non avrebbe potuto darmi l’assoluzione né l’Eucarestia. Io non gli avevo chiesto nulla. Mi ha elencato una serie di regole che non capivo. Non sono più tornata». «Dirigo un gruppo di ricerca di medicina molecolare- racconta Alice, 50 anni -. Ogni volta che entravo in parrocchia, mi sentivo catapultata indietro di trent’anni. Là ero una mamma, una moglie, nient’altro. Mi prendevano in considerazione solo per ruoli di accudimento. Ho smesso di andarci»

Non sono episodi isolati. Le donne del ventunesimo secolo hanno pile di “quaderni di doglianze” nei confronti della Chiesa.

Non si tratta, però, nella gran parte dei casi, di rivendicazioni meramente ostili. Come spesso accade, nei lamenti si può udire la voce dello Spirito, sostiene il teologo statunitense Bradford Hinze, che insegna alla Fordham University di New York. La crescente disaffezione delle fedeli potrebbe allora essere un segno dei tempi. Il fenomeno è diffuso, come sottolineano le scienze sociali. In Italia, l’ultimo “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo rivela un vero e proprio esodo delle ragazze dalla Chiesa. Un fenomeno cominciato quasi in punta di piedi a partire dagli anni Sessanta ed emerso con forza dirompente negli ultimi decenni con la cosiddetta generazione Z (le nate tra il 1996 e il 2010). Già nel 2014, il teologo Armando Matteo, ora segretario del dicastero per la Dottrina della fede, richiamava l’attenzione sulla “fuga delle quarantenni”. Il campanello d’allarme, però, è rimasto inascoltato.

Attualmente, le ragazze italiane under 30 che si dichiarano cattoliche sono il 33 per cento, dieci anni fa erano quasi il doppio (62 per cento). Quelle che si definiscono atee sono passate dal 12 al 29,8 per cento. Cifre simili a quelle dei coetanei maschi. Finora, però, le fedeli erano state “l’eccezione” alla crescente sfiducia verso appartenenze e pratiche religiose. Non è più così. In Italia come nel resto dell’Europa.

Negli Usa addirittura è avvenuto il sorpasso in chiave ecumenica: in base alla recente rilevazione del Survey center on American life, a lasciare le diverse confessioni cristiane sono il 54 per cento delle giovani contro il 46 per cento dei ragazzi. «Un accumulo di esperienze negative» è la ragione dell’addio, per il direttore del Daniel Cox e la coordinatrice del programma e ricercatrice Kelsey Eyre. Silenzioso, in genere. «Il suono di una donna che abbandona la Chiesa è quello di una sola mano che applaude», scriveva un anno fa, in una lettera aperta sul National Catholic reporter Geraldine Gorman, docente di scienze infermieristiche e attivista per la nonviolenza, che l’ha vissuto in prima persona.

Ogni donna ha la sua lista personale di frustrazioni vissute in ambito ecclesiale. Il mancato riconoscimento dell’emancipazione ottenuta, pur con tutti i limiti, in ambito civile, la crescente divergenza tra la morale sessuale e i comportamenti individuali, l’esclusione, di fatto, dagli incarichi di responsabilità e, di diritto, dai ministeri ordinati. «Il simbolico femminile costruito dalla Chiesa è qualcosa in cui le donne concrete di quest’epoca non possono più riconoscersi», afferma la teologa italiana Selene Zorzi. «Non solo tutte le posizioni centrali sono affidate agli uomini: la celebrazione eucaristica, la preghiera, la guida della comunità, come le cattoliche sperimentano quotidianamente. Anche il linguaggio è maschile. Agli occhi della Chiesa, inoltre, la donna è essenzialmente madre e moglie e solo in seconda battuta lavoratrice. Quante non hanno una famiglia eterosessuale o figli o sono single non si sentono riconosciute» sottolinea Gunda Werner, docente di Dogmatica all’Università di Bochum, in Germania, e portavoce del Forum of Catholic women theologian.

Il tema è dirompente nel Nord del mondo. Ma inizia ad evidenziarsi anche altrove. Un indizio è, in America Latina, il calo dei catechisti negli ultimi anni. Se i vescovi del Continente, durante la Conferenza di Aparecida del 2007, parlavano di assenza dei maschi nelle comunità ecclesiali, la diminuzione rivela un allontanamento delle donne, in particolare le giovani. La loro delusione si esprime, più che con una “fuga”, con una limitazione di tempi e spazi di vita dedicati alla Chiesa. Qualcosa di simile accade in Africa e in Asia.

Lo scontento femminile, insomma, è un fenomeno globale, a giudicare dalla trasversalità geografica con cui il grido delle donne è emerso dalle relazioni continentali presentate al Sinodo universale. Il processo di ascolto e di discernimento avviato da quest’ultimo ha portato, finalmente, la questione in primo piano. Un frutto è stata l’inedita presenza in Aula, alla prima sessione nell’ottobre 2023, di 54 “madri sinodali” con diritto di voto. «Il Sinodo ha fatto sì che il malessere femminile fosse chiaramente percepito. Non è ancora, però, compreso nelle sue cause profonde. Si ascoltano le parole delle donne ma troppo poco le verità che quelle parole contengono. Almeno quando esse implicano una trasformazione nell’interlocutore», sottolinea la teologa argentina Carolina Bacher, ricercatrice dell’Università Cattolica Silva Henriquez di Santiago del Cile ed esperta di sinodalità.

«La prima Assemblea, in ogni caso, ha espresso con grande lucidità e senso di responsabilità, anche grazie alle donne presenti, il desiderio di un cambiamento. In questo senso, il Sinodo ha rimesso moto il processo di cambio di paradigma avviato dal Vaticano ii , quella “rivoluzione evangelica” di cui è cuore pulsante una nuova relazione tra maschile e femminile, in Gesù, distante dagli standard patriarcali di allora e di adesso», afferma don Piero Coda, segretario generale della Commissione teologica internazionale. La Relazione di sintesi chiede a gran voce «un reale riconoscimento e una specifica valorizzazione della presenza e del contributo delle donne e una promozione delle responsabilità pastorali nella vita e nella missione della Chiesa».

I documenti arrivati in vista della seconda sessione sottolineano queste urgenze. «In particolare, chiedono una maggiore partecipazione delle donne ai processi decisionali e la valorizzazione del loro ruolo a partire da quanto è già possibile, sia nell’insegnamento sia nell’affidamento di incarichi all’interno delle diocesi e nei processi canonici», spiega padre Giacomo Costa, segretario speciale del Sinodo sulla sinodalità.

L’indicazione è chiara e quindi non è necessario un ulteriore lavoro assembleare. Si tratta, invece, di capire come darvi seguito. Per questo, senza aspettare le conclusioni della prossima assise sinodale, papa Francesco l’ha affidata a uno dei dieci Gruppi di lavoro costituiti ad hoc - e composti in modo sinodale da esperti ed esperte - perché la approfondisca. Della partecipazione delle battezzate alla vita ecclesiale, in particolare, si occuperà la quinta commissione, chiamata a esaminare «alcune questioni teologiche e canonistiche intorno a specifiche forme di ministerialità». Le conclusioni arriveranno «preferibilmente entro giugno 2025», già al Sinodo, però, verrà presentata una relazione sullo stato di avanzamento dell’analisi. «In realtà, la questione femminile è trasversale, tocca tutti i gruppi, dalla formazione al dibattito su questioni etiche controverse. La scelta di affidarla a questi ultimi non va letta come un modo di sottrarla al dibattito dell’Aula che si concentrerà sulla sinodalità della Chiesa, tutt’altro. Vuol dire, al contrario che il tema è emerso in modo netto. Non ha necessità di ulteriori discussioni bensì di affondi puntuali in vista del compimento di passi necessari», sottolinea don Coda

Il momento è delicato: alle attese di tante – e tanti – si sommano i timori di quante – e quanti - paventano il rischio di una deriva gattopardesca di un percorso oggettivamente complesso. Preoccupazioni acuite dopo l’apparente chiusura al diaconato femminile – che rientra espressamente nell’oggetto del quinto gruppo di lavoro– da parte del Pontefice nell’intervista dello scorso maggio alla Cbs. «Siamo nel mezzo di un cammino. E’ fondamentale, dunque, che nessuna delle due parti interrompa il dialogo. Quest’ultimo non è concluso fin quando entrambe non siano soddisfatte – sottolinea Carolina Bacher -. Qualunque pronunciamento va inquadrato nell’orizzonte di una conversazione aperta, in cui si procede per decisioni che esprimano l’accordo raggiunto fino a quel momento. Sarebbe opportuno costituire delle strutture in cui il conflitto possa continuare ad essere discusso, le tensioni fatte emergere, senza paura. Nella storia la Chiesa ha affrontato altre volte dibattiti accesi. E’ la Tradizione a offrirci indicazioni preziose sul come procedere. Il paradigma continua ad essere quello raccontato negli Atti sul Concilio di Gerusalemme quando si decise che i cristiani di altre tradizioni non erano tenuti a seguire le regole dell’ebraismo. Il principio invocato da Pietro allora fu quello di “non imporre più pesi di quelli necessari”. Era valido allora e lo è ora. Questa “opzione per i minimi” è un criterio di discernimento sinodale che discerne ciò che lo Spirito vuole dire alla Chiesa odierna».

di Lucia Capuzzi
Giornalista «Avvenire»