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Canti dalle periferie Il diritto di parlare e di essere ascoltati

 Canti dalle periferie Il diritto di parlare e di essere ascoltati  ODS-024
03 settembre 2024

I veri eroi

Viviamo in un’epoca in cui si sono persi dei valori importanti. Oggi, le persone vengono considerate in base al modello di cellulare che possiedono o alla marca e alla cilindrata dell’automobile che guidano.

Così, chi non ha niente non vale niente e chi si arrangia con poco, cercando di fare una vita dignitosa, non merita neppure uno sguardo.

In un mondo accecato dal consumismo, dove il numero degli “scartati” cresce ogni giorno di più, queste persone, invece, devono essere considerate degli eroi. Sono loro, gli ultimi, i veri eroi, coloro che stanno in fondo alla scala sociale, che vivono di elemosine e sono felici quando, per strada, trovano un mozzicone di sigaretta un po’ più lungo del normale o una maglietta con un buco solo; oppure coloro che, un po’ per mancanza di risorse economiche e un po’ per una cultura dettata dall’abitudine (gli anziani), si accontentano dell’essenziale, di quello che basta per vivere.

Quando sentiamo che il 10% della popolazione mondiale possiede quasi l’80% della ricchezza totale, ditemi voi se questi non sono degli eroi.

Sono campioni di dignità e di coraggio. Quella dignità e quel coraggio che non trovi sul telefonino di ultima generazione e neppure sull’automobile più veloce.

La cicala e gli angeli

Grazie Caritas!

Questa non è la solita espressione di ringraziamento per farsi bello e buono così da ottenere qualche favoritismo o guadagnare la stima di qualcuno. In certi momenti della mia vita, con i miei comportamenti, non mi è stato difficile conquistare la disistima di più persone. Ma io sono fatto così: non ho timore di manifestare ciò che provo. E, di solito, la cosa viene capita: il coraggio di essere se stessi in ogni circostanza e ad ogni costo paga sempre.

Ma andiamo per ordine, così capirete da dove nasce questo mio ringraziamento.

Lo diceva spesso mia moglie, Anna: «Compriamoci una casa, mettiamoci un tetto sopra la testa. Adesso viviamo bene, ma se ti rompi una gamba che famo?». «Ma no…», rispondevo io, «ora apriamo una società, facciamo tanti soldi e prendiamo una casa più bella…».

La separazione da Anna arrivò ben prima della casa. Anzi la casa non arrivò proprio. Così, tra alti e bassi, la vita andò avanti per alcuni anni. Poi accadde che mi ruppi davvero una gamba e rimasi bloccato da una brutta infezione da herpes zoster. Dimesso dall’ospedale, mi ritrovai da solo. I dolori erano insopportabili: urlavo e bestemmiavo giorno e notte, nonostante gli antidolorifici che, nel frattempo, mi mangiavano i reni.

Fu un periodo d’inferno. Non avevo un soldo da parte. Così smisi di pagare la pigione e quel maledetto che mi aveva subaffittato la casa mi fece arrivare lo sfratto. Assalito dalla depressione, in breve finii per essere un barbone domestico. «Cos’è?», mi chiederete. È un essere umano che, anche se sta dentro quattro mura, vive come un senza dimora, come quelli che vedi sotto i ponti o in qualche giardinetto che ormai hanno perso ogni rispetto per se stessi: sporchi, circondati dalla spazzatura, con lo sguardo perso verso non si sa dove.

Non tardò ad arrivare il giorno che mi lasciai convincere ad abbandonare quella casa anche se non sapevo dove andare. Ero pietrificato dalla paura, così, anziché imboccare il portone del palazzo, salii sul davanzale della finestra del terzo piano. Visto che impiccarmi all’armadio non era più possibile, volevo farla finita in questo modo. Ma lo pseudopadrone di casa mi implorò di non farlo: non era preoccupato per me, ma delle conseguenze che lui avrebbe potuto subire. Arrivò la polizia e poi l’ambulanza che mi portò in ospedale.

Non avevo nulla: la residenza mi era stata cancellata, la patente e la tessera sanitaria chissà dove erano finite, per non parlare della carta d’identità. Solo grazie all’aiuto di Novella, una giovane assistente, riuscii ad ottenere l’assegno sociale, la residenza e la carta d’identità.

Quando venni dimesso dall’ospedale si presentò di nuovo il finto padrone di casa a chiedermi le chiavi: nonostante l’ingiunzione ricevuta dalle forze dell’ordine, non voleva che tornassi in quell’appartamento. Come uno scemo gli diedi le chiavi. E potete immaginare come andò a finire.

Senza sapere dove andare a sbattere la testa, chiesi ospitalità a mio figlio fingendo di avere gli operai in casa.

A salvarmi fu di nuovo Novella che mi propose di rivolgermi a un centro d’ascolto per chiedere un posto letto. Lì incontrai un secondo angelo, Imma: due stelle al posto degli occhi, bella, calabrese, di una sensibilità che la metà basta. Andai a trovarla vicino alla Stazione Termini, posto immondo pieno di disperati e ladri di polli. Le feci il quadro della situazione: un’ora di parole alle quali rispose con un sorriso e un «vedrò cosa posso fare».

Dopo un paio di giorni, arrivò la sua telefonata: «C’è un posto letto per te all’ostello della Caritas di via Marsala». Ci andai e ad accogliermi trovai il terzo angelo, la sorridente Marianna, che mi spiegò il funzionamento dell’ostello. «Ci vuole tanta pazienza», mi disse sorridendo e regalandomi dignità a quintali.

Erano i primi di maggio del 2023. La vera difficoltà non era solo non avere un euro in tasca, ma il dover stare in strada dalle 9 del mattino alle 5 del pomeriggio, girovagando come uno zombie. Subito dopo cena, me ne andavo nel mio posto letto perché non volevo avere contatti con gli altri ospiti. Cercavo solo i miei angeli, gli operatori e i volontari. Ogni tanto gli chiedevo: «Ma come fate a sopravvivere in questo girone infernale?». E loro, in modo disarmante, mi rispondevano: «È il nostro lavoro e lo facciamo con piacere e soprattutto con passione».

A fine giugno, mi presentai al Caf per fare la domanda per la pensione. Mi risposero che entro pochi mesi l’avrei avuta insieme con gli arretrati. Non passò neanche un mese e, per caso, scoprii che sulla “PostePay” che mi ero appena fatto c’erano dei soldi. Pensai ad un errore e così mi affrettai a ritirare tutto. Ma l’errore era il mio: quella era veramente la mia pensione!

Passarono pochi mesi e mi arrivò un’altra telefonata: «Elio, c’è un posto per te a Casa Santa Giacinta, che adesso si è trasferita al santuario del Divino Amore. È aperta 24 ore su 24, le camere sono da tre letti con bagno e balconcino. Che fai? Accetti?». «Di corsa», risposi.

Adesso che conoscete la mia storia, potete capire perché ho iniziato scrivendo «Grazie Caritas».

La Caritas esiste anche per una “cicala” come me che non ha risparmiato nulla nella vita e poi si è ritrovata a non poter più lavorare. Ci aiuta nelle cose pratiche – un tetto, il pranzo e la cena –, ma ci dà molto di più: ci restituisce la dignità che pensavamo di non avere.

Quanto è facile finire
nelle grinfie
del “cravattaro”

Su questo giornale — si sa — si tratta di povertà. Si disserta su come superarla, su come uscirne… Ma come si finisce in povertà? Sappiamo che, come più volte detto e scritto, il motivo fondamentale — anche se non sufficiente — è di ordine economico/finanziario: con un conto in banca pingue, è ovvio, poveri non si è.

A quanto sembra, quella del denaro fu un’invenzione che mise d’accordo tutte le popolazioni già in epoca antica. Se fosse esistito già allora il Premio Nobel, l’inventore ne sarebbe stato insignito all’unanimità. Del resto, il bisogno di tale strumento era avvertito con forza, tant’è che molte società usavano negli scambi commerciali conchiglie, pietre e quant’altro. In fondo anche il denaro, come questi oggetti, non è di per sé ricchezza, ma la rappresenta.

Eppure, non si sa bene quando, ma forse molto presto, il denaro divenne esso stesso merce, soggetto ad essere comprato, venduto, prestato e, quindi, a generare profitti senza bisogno di essere associato a beni materiali.

Siamo nel campo della speculazione finanziaria, responsabile di non pochi disastri planetari, ma che, nonostante tutto, continua a prevalere sull’economia reale.

Ma che succede quando dal macro scendiamo nel micro, a livello di vita quotidiana delle persone? Quando una famiglia si trova a corto di soldi è facile che, di fronte alle difficoltà di ottenere un credito per vie legali, incroci piccole società d’intermediazione finanziaria o singoli individui che “generosamente” mettono a disposizione le loro risorse, prestando un po’ di denaro senza chiedere tutte quelle garanzie che invece richiede una banca. Peccato, però, che la loro “generosità” abbia un prezzo, anche salato, applicato attraverso tassi d’interesse talvolta esorbitanti che, mese dopo mese, finiscono per risucchiare il debitore in una pozza di sabbie mobili.

Da benevolo e comprensivo, il volto dell’usuraio si svela così per quello che è: ostile e spietato. Con tutte le conseguenze di cui spesso leggiamo sui giornali.

In ogni caso, il problema dell’indebitamento e dell’usura va inquadrato nel sistema del credito che va regolamentato in modi e misure molto più stringenti di oggi. Occorrono sanzioni molto più dure per i colpevoli del reato di usura, così come sono indispensabili garanzie molto più forti per i taglieggiati, che altrimenti non avranno mai il coraggio di denunciare la vessazione che subiscono.

L’usuraio, lo strozzino (o, come si dice a Roma, "er cravattaro") solitamente — e come potrebbe essere altrimenti — è anche evasore fiscale, danneggiando così tutta la società.

In conclusione, non serve demonizzare il denaro. Non serve nemmeno l’invettiva dei Pink Floyd nella loro Money: «Money, get away!» (Soldi, andatevene!). Basta gestirlo come si deve.

I debiti dei carcerati

C’è un grande assente nella nostra Italia: la cultura del risparmio, del “pesare” bene ogni euro e la fatica necessaria per guadagnarlo. Non c’è un percorso di educazione alla spesa ragionata e nessuno pensa a ciò.

Tempo addietro le banche, in occasione della Giornata del risparmio, organizzavano — soprattutto nelle scuole — iniziative di sensibilizzazione. Ora tutto è assai più debole. Sorge allora spontanea una domanda: perché non abbinare al pacco di sostegno anche un corso per la corretta gestione dell’euro? Perché i supermercati (anche quelli solidali) non vengono sensibilizzati ad evitare spese superflue?

C’è poi un dato veramente sorprendente dell’ignavia dello Stato sul tema delle persone recluse. A pena definita, il Tribunale può applicare delle sanzioni economiche anche di svariate centinaia o migliaia di euro a prescindere dalla capacità del soggetto di onorare la sanzione. Quindi raramente quelle somme vengono pagate andando ad allungare la lista delle insolvenze presso l’Agenzia delle Entrate.

Altro aspetto è il vedersi notificare a fine pena e fuori dal carcere il conto delle spese da restituire all’amministrazione per il mantenimento in carcere. Anche qui la burocrazia tenta il tutto per tutto, ma il risultato è spesso inconsistente. È possibile sovraindebitare le persone in modo così dannoso e inutile?

Il gratta e vinci
della nonnetta

Ore 9 del mattino: entro nel bar tabaccheria per acquistare le mie tanto amate – maledetto vizio! – sigarette. Mi anticipa una fila nutrita di gente tra cui una vecchietta che, arrivato il suo turno, dice contenta alla cassiera: «Ho vinto 10 euro, me li rigiochi?». La cassiera, che la conosce da tanto e ha una certa confidenza con lei, cerca di farla desistere. «Non è meglio che li tieni quei soldi?». La nonnetta insiste: «Rigiocali! Tanto ho perso tutto, non ce la faccio nemmeno a pagare le bollette. Se vinco bene, altrimenti mi faccio prestare i soldi dai vicini».

Ecco lo specchio di un’Italia impoverita che non ce la fa, un po’ per colpa, ma tanto per illusione: illusione del soldo facile, di ricchezza che poi ricchezza non è quasi mai, ma è soprattutto spreco.

Passando per il periodo del consumismo, siamo arrivati all’epoca dello spreco, dello scarto. Ci indebitiamo fino al collo per possedere cose e sentimenti usa e getta. Chiediamo prestiti di denaro, di amore, di relazioni che poi logicamente non riusciamo a restituire. Ci piace vincere facile, amare facile, mangiare facile, vivere facile senza responsabilità, senza impegno e senza il gusto di una volta, quello di conservare care le cose importanti. Il peggio è che pensiamo di sentirci più ricchi, ma in realtà ci impoveriamo sempre di più.

«Nonna, se li tenga quei 10 euro. Li gioco io per lei: faccia perdere me affinché io possa capire meglio il valore di ogni piccola cosa. E mi dia l’opportunità di offrirle la colazione e un abbraccio così da diventare io creditore e non più debitore d’amore, di gioia e di sorrisi». «Sì, figliolo, grazie», mi risponde. Finisce il cappuccino e va via senza che nessuno dei due abbia giocato.

Oh, cavolo: ho dimenticato di comprare le sigarette. Non fa niente, oggi vado al mare, con indosso un costume di tristezza, ma anche il laccetto della speranza!

Felicità non è nella ricchezza che finisce,
ma nell’amore
che resta

Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, nudo e mi avete vestito (cfr. Mt 25, 35-36).

Che cos’è la felicità? La felicità è nel dare, non nell’avere. Non è la ricchezza, non è pensare solo a sé stessi. Dobbiamo guardare a chi è povero, essere vicini a chi soffre, vivere accontentandoci di poco e di quello che si ha, senza sprechi.

L’amore è dividere il pane col fratello. Gesù ha offerto la vita per noi solo per amore, senza ricevere nulla in cambio. Dovremmo fare lo stesso anche noi. Se chiudiamo il nostro cuore al fratello, che cosa ne otteniamo? Egoismo e spreco. Tutto ciò che viene gettato inutilmente è peccato.

Guardiamo ai bambini del Terzo Mondo. Sono pelle e ossa. Chissà se arriveranno a domani. Basterebbe poco per vederli crescere. Ma noi pensiamo solo a stare bene, alle ricchezze, alle belle case. Siamo tutti chiusi per paura dei ladri. Ma i valori dove sono? Dove sono la carità e l’amore verso il prossimo?

Ci si indebita per il gioco, si fanno le scommesse per avere tutto il denaro che serve e poi alla fine si è più poveri di prima. Che cosa hai ottenuto da tutto questo? Nulla. E allora che futuro vai cercando?

La felicità ti porta oltre la ricchezza che finisce. Invece, l’amore resta. Dobbiamo dare un senso alla nostra vita. Cerchiamo di vedere nell’altro nostro fratello, che è amato da Dio come noi. Impariamo a vivere avendo nel nostro cuore gli stessi sentimenti di Gesù. Solo allora troveremo la strada della felicità.

Domenico

Elio

Fabrizio Salvati

s.c.

Arcangelo

Lia