· Città del Vaticano ·

Un fenomeno che colpisce persone, famiglie e popoli L’ipocrisia e l’ottusità di un sistema che non interviene sulle cause

Quando la povertà diventa un business

 Quando la  povertà diventa un  business  ODS-024
03 settembre 2024

Venire esclusi dalla società perché schiacciati dal debito inestinguibile, monetario o di lavoro, quando si è obbligati a versare del denaro liquido oppure a ripagare una somma sottoponendosi a un eccesso di fatica fisica e mentale. È un’esperienza che per molte famiglie passa da congiuntura transitoria a condizione definitiva. E questo accade tanto per le moltitudini delle città industriali e delle campagne del Nord del mondo quanto per i popoli dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina.

Alla svolta dei primi 25 anni del xxi secolo, l’esclusione sociale per insolvibilità riprende a collocarsi e a schiacciare l’esistenza di immense popolazioni, anche nell’Occidente che esibisce la ricchezza più fantastica e in termini dissipatori della storia dell’umanità.

Con parole dal suono hi-tech, si cerca di rendere meno drammatica (e odiosa) l’operazione di assoggettare una persona a un debito, a quel debito che essa non è più in grado di ripagare. E così, quando non si è disponibili a rimetterlo, in tutto e nemmeno in parte, perché si possiede il titolo legale (oppure illegale) di esigere, si ricorre a un lessico che rilascia un’aura di mistero. Inadempienze probabili, Morosità, Passività, Incagli, Sofferenze, Insolvency Risk, Non Performing-loans (anche con acronimo npl s), Default e così via. Termini senza emozioni che valgono a sfumare la realtà complessa che percorre il debitore. E a spianare la strada per una versione, in verità assai comoda, di un antico mito: il mito del debitore immorale, giacché nel nostro tempo “le famiglie sono più inclini a truffare”, “fanno il passo più lungo della gamba”, sono state incaute e allegre “come cicale”.

Conviene per un minuto sospendere di argomentare per opinione, e invece lasciare il campo ai dati. Ebbene, in Italia il numero di famiglie prigioniere di un indebitamento dal quale è loro impossibile uscire era già cresciuto in misura enorme dall’anno della Grande Crisi, il 2007, fino al dicembre del 2017. In termini più precisi, era passato da un milione e 280.000 circa (dato estratto dal database di Banca d’Italia) a un milione e 960.000. Le famiglie “tecnicamente” sovraindebitate, ovvero in fallimento economico, erano aumentate di 52 punti percentuali.

Tuttavia, durante la pandemia 2020-2021, si era osservato un calo temporaneo del numero di famiglie in difficoltà economica grazie agli aiuti statali, alla sospensione delle procedure esecutive, al divieto dei licenziamenti, alla sospensione dei versamenti di tasse e mutui, alla moratoria delle dichiarazioni di fallimento. E il “volume” dei nuclei familiari coinvolti nel debito senza scampo si era attestato a circa 1.175.000 unità. Insomma, la pandemia da Covid-19, qual tragedia universale “democratica”, aveva posto le premesse di un ampio scuotimento del fardello dei debiti. «Siamo tutti nella stessa barca, o ci salviamo tutti o periamo tutti»: l’umanità riscopriva la reciprocità.

Si ponevano le basi di un Nuovo Corso, e almeno in Europa questo pensiero si stava consolidando. Cos’altro erano i concetti di base del pnrr ? Con la guerra d’aggressione all’Ucraina e, poi, con la catastrofe a Gaza sono tornati nei paesi risparmiati dalle bombe l’inflazione (pur eclissatasi nei dieci anni precedenti) e gli alti tassi d’interesse sul denaro. E il senso comune dei grandi decisori ha virato, spalancando le porte a quel business sulla povertà che si rilancia in ogni crisi asimmetrica dove s’impone una vera o presunta, cioè artificiale scarsità: speculazione finanziaria sulle materie prime alimentari ed energetiche, misteri sulla formazione dei prezzi, combinazione della caduta dei valori immobiliari dei patrimoni delle famiglie mutuatarie con il balzo dei tassi d’interessi sulle rate a cifra variabile.

Velocemente è risalito il numero di famiglie sovraindebitate, con un saggio di 100.000 casi in più per ogni punto d’inflazione, arrivando a superare, già a fine 2023, due milioni di unità.

Le case riprendono a finire all’asta (al saggio di 130-150mila ogni dodici mesi, il che significa almeno 600 mila in un quinquennio), mentre tutto ciò scompare dalla scena pubblica o, meglio, dal dibattito politico-istituzionale.

L’inflazione, l’aumento dei tassi di interesse sui mutui e la riduzione del valore del patrimonio immobiliare delle famiglie sono alcuni dei fattori che hanno ulteriormente compresso la loro capacità di far fronte ai debiti contratti. Inoltre, la precarietà del lavoro e la diffusione di occupazioni atipiche hanno reso molte famiglie ancora più vulnerabili a forme di sovraindebitamento passivo, spesso senza nemmeno una formale responsabilità personale, ma come risultato delle condizioni economiche sfavorevoli​.

Ha ripreso intanto a girare quel volano di approfittamento finanziario che converte la condizione delle famiglie. Giacché il sovraindebitamento consiste proprio in questo. È un convertitore di condizione: dalla sicurezza minima alla perdita di equilibrio nella quotidianità; dal vivere in modo precario alla povertà relativa; dalla insufficienza cronicizzata di risorse primarie alla povertà assoluta. Un convertitore potente, e ignorato dal pubblico, della condizione esistenziale.

Dietro il termine tecnico sovraindebitamento, una volta saltati sopra la cordicella di un’espressione da gergo bancario, si svela l’immagine reale del fratello che piange. Dunque, direbbero gli analisti, una sequenziale ristrutturazione dell’io. La casa è stata espropriata, il debito resta e perseguiterà anche dopo che il fondo speculativo che se la sarà accaparrata dalla banca al prezzo di un rottame. Sulla famiglia, infatti, qualora essa riesca a superare la crisi e a riprendere a disporre di un reddito, piomberà l’artiglio del recupero crediti, di quella somma “residua” che manca dopo che il recuperatore ha venduto all’asta l’immobile. Creditore subentrato che è pronto a ghermire un salario legale, un’entrata sopraggiunta. Solo il nero metterà al riparo.

E qui l’ipocrisia delle istituzioni si coniuga con l’ottusità. Scuotere la famiglia da quel fardello, aiutandola a riprendere un reddito “in chiaro”, avrebbe un costo di gran lunga inferiore che lasciarla sotto la spada di Damocle dei creditori. Lo scuotimento del debito, per restituire una chance, comporta un impegno finanziario e sociale per la pubblica amministrazione decisamente inferiore a quel che deriva dal cerchio vizioso del lavoro in nero e dell’economia sommersa. Si preferisce varare miseri programmi che fanno giungere poche briciole ai falliti per debiti.

Queste dimensioni quantitativamente significative del sovraindebitamento e dell’esclusione sociale per debiti rappresentano una sfida critica per le politiche pubbliche e richiedono interventi mirati per prevenire ulteriori sofferenze e ridurre il rischio di cadere in circuiti di usura. Ne consegue una regressione culturale ed etica, con il rilancio di motivi arcaici.

È ben noto, infatti, che la centralità del gioco finanziario diffonde il culto del denaro, con un volgare feticismo che si spinge a creare una connessione fra debito economico e colpa morale, fino a indurre il povero insolvente, come scriveva Walter Benjamin, «a fare di sé una moneta falsa, a carpire il credito con inganno, a mentire, così che il rapporto di credito diventi oggetto di abuso reciproco» (Capitalismo come religione, 1921). Il motivo conduttore non ci viene risparmiato nemmeno oggi, ed è inutile attendersi che venga spento in un futuro prossimo.

La questione è la trasformazione del debitore da un problema pubblico a un soggetto colpevole e sgradevole, oppure ignorante delle regole. Dopo averlo disapprovato, al più lo si può soccorrere con bonus, social card di Stato, accompagnando le mance pubbliche con la somministrazione di una lezione di “educazione finanziaria”.

Non ritroviamo l’ammissione di realtà che dopo la pandemia, per la crisi finanziaria arrecata dalla guerra in Europa, la situazione si è aggravata, spingendo alla previsione di un rischio che può arrivare a coinvolgere anche un numero iperbolico di famiglie, addirittura cinque-sei milioni. Nel vasto campo di una generale esclusione sociale per debiti, si genera una combinazione di povertà relativa e di povertà assoluta, di sovraindebitamento e di esposizione all’usura.

Lo scuotimento del peso, che costerebbe socialmente assai meno che insistere nel perseguitare l’insolvente, viene rifiutato. Ne nasce un business sulla povertà e per espropriazione dei poveri, analoga a quello che avviene nel continente africano. Come per gli homeless, anche per i sovraindebitati tanti servizi ma nessun affrancamento da una condizione strutturale di sofferenza, nessuna misura di fondo che è invece pervicacemente negata. Eppure, quando il numero dell’inflazione è un multiplo del valore della crescita del reddito, si ha una misura oggettiva del rischio sociale, della quantità dei fallimenti per debiti. Se l’inflazione è pari a 9,5 punti e il reddito nazionale sale di 0,9, il rischio di fallimento per debiti delle famiglie si moltiplica almeno di nove volte. E da problema “micro” (la persona sola) si volge in questione “macro”, secondo la definizione insuperata che Augusto Placanica, storico del nostro meridione, ci aveva consegnato del debito: «Il più individuale dei drammi sociali, terreno dove il singolo affronta i più crudi temi della vita, non avendo davanti a sé altra alternativa che la disperazione».

di Maurizio Fiasco *

* Sociologo e membro
della Consulta nazionale antiusura