· Città del Vaticano ·

L’altra copertina

Rimetti a noi i nostri debiti

 Rimetti a noi i nostri debiti  ODS-024
03 settembre 2024

Quando arrivo la trovo lì, nella sala conferenze del Centro Astalli, il volto incorniciato dal chador. La donna mi guarda coi
suoi occhi neri,
così grandi, e non dice nulla. Allora, le dico: Raccontami la tua storia.

Un po’ banale come attacco, hai detto quando, finita l’intervista, ti ho chiamato. Funziona sempre, ho detto, tranne stavolta.

Avrei dovuto raccontare una storia sull’indebitamento o, almeno, una storia che parlasse in qualche modo di indebitamento. Sarebbe andata bene anche una storia senza indebitamento, ma che fosse una storia, e invece, dopo quasi due ore di intervista, non avevo nulla.

E adesso che faccio? ti ho detto. Scrivi di lei, parla di questa signora partendo dall’inizio, quando lascia la Somalia per venire in Italia e…

Quanti anni avevi quando sei partita?, domando alla donna di nome Fardusa, che significa Paradiso. Allora avevo 26 anni. E perché sei partita? In Somalia non potevo restare. E perché? Ero in pericolo. Per via della guerra? Non solo per la guerra, dice la donna, e non aggiunge altro, solo mi guarda con quegli occhi su cui un inchiostro nero ha scritto la storia della sua vita, una storia che non riuscirò mai a leggere perché ogni domanda che faccio si scontra col suo silenzio.

Raccontami il viaggio per arrivare in Italia: è stato pericoloso? Dalla Somalia, dice Fardusa, sono andata in Kenya, poi in Uganda, Sud Sudan, Khartoum, deserto, Libia, poi Pozzallo, Caltanissetta, Foggia, Bari, Palermo, Roma. E te l’ha detto così? mi domandi quando, uscita dal Centro Astalli, ti chiamo. Proprio così, lo sai, era come ascoltare qualcuno che ti racconta un viaggio che non gli è piaciuto e si sofferma solo sui nomi dei posti, non aggiunge altro. Forse è così, mi dici. Forse non le fa piacere parlarne. E io vorrei dirti: e a me che importa se non le va? Sono andata lì per scrivere una storia sull’indebitamento e lei me la deve raccontare, lei aveva un debito con me e non l’ha saldato.

Lo sai, ti dico, sono così abituata a persone che senza remore mi raccontano la propria storia che, ormai, non mi domando neppure: ne avranno voglia? Gli farà piacere mettere in vetrina la loro vita per me, l’occidentale di turno che un tempo comprava solo i loro prodotti — tè, caffè, diamanti — e ora vuole la loro vita?

E durante il viaggio, domando alla donna che siede con me in una sala del Centro Astalli: Ci sono stati mai dei momenti in cui hai avuto paura? In quei momenti non c’è paura, dice la donna. Ah no? In quei momenti pensi solo una cosa: come mi salverò.

Mai avuto paura? la incalzo. La donna mi fissa, la donna mi sfida con quei suoi occhi neri e reticenti.

In quei momenti pensavo solo una cosa: se muoio adesso chi lo dirà ai miei genitori? E tu allora che le hai detto? mi domandi mentre parliamo al telefono dell’intervista appena fatta. Io allora ho cercato di seguire la pista dei legami, ma non c’è stato verso, non ne voleva parlare, era come avere di fronte un muro.

E come hai fatto a pagarti il viaggio? le ho domandato a quel punto. Ci saranno voluti tanti soldi per arrivare dalla Somalia all’Italia. Mi hanno aiutato, dice lei. Chi ti ha aiutata? Della brava gente, dice. Io non ci credo alla brava gente.

Forse in Africa, in qualche paesino sperduto di quel continente così vicino e così distante da noi, ma in Italia… Anche da noi, le dico, anche qui tutta brava gente? Sì, dice lei, e non aggiunge altro. Allora, la guardo in quei suoi occhi neri d’orgoglio. Da noi la gente è brava finché tu fai la brava, poi…

Lei non dice nulla, mi guarda, e nei suoi occhi neri vedo riflessa l’immagine di una piccola donna occidentale curva su sé stessa, una donna per cui la vita è solo questione di debiti: Fardusa mi deve la sua storia, io devo l’articolo al mio capo, il mio capo lo deve al suo editore e via discorrendo. Siamo tutti in un girotondo di debiti. Io sono in debito con gli amici che metto sempre all’ultimo posto e poi mi domando: com’è che non ci stanno mai quando serve? Sono in debito con te che sei il piccolo monte di pietà cui tutti i giorni porto i miei lamenti per riceverne in cambio solo tanta fiducia, e sono in debito pure con me stessa: tutti i miei sogni, tutte le cose che desideravo e non ho mai fatto e ormai è troppo tardi per pensarci.

Hai dei sogni? domando rompendo il silenzio che si è creato nel Centro Astalli. C’è qualcosa che vorresti realizzare prima di morire? La donna mi punta contro quei fanali neri che sono i suoi occhi. Non ho più scelte, dice. Farò quello che capita. Ma un tempo, le dico, quand’eri più giovane avrai avuto dei sogni? I suoi occhi neri si fanno ancora più scuri. Il passato è passato, dice, e non aggiunge altro.

Forse è quello il suo debito, mi hai detto quando ti ho fatto leggere l’intervista. Forse questa signora ha un debito con la sua storia, un debito che sa di non poter pagare. Dici? I conti col passato non li saldiamo mai, e mentre continui a parlare io penso a me, alla mia storia, al mio passato, penso allo strozzino del giorno prima, dell’anno prima, di una vita fa, che ogni giorno bussa alla mia porta: ti ricordi? Ti ricordi quello che hai fatto ieri, l’anno scorso, quand’eri giovane? E così dicendo mi sbatte in faccia la lista dei debiti che contraggo ogni giorno, ogni istante, ogni anno. Sono debiti d’affetto, di pazienza, di comprensione, debiti contratti con tanta brava gente che non so perché ancora mi sopporta.

Poi lo strozzino mi sbatte in faccia un’altra lista, ancora più lunga. E questi? Questi sono i debiti che gli altri hanno con te: ti ricordi di quella volta che t’hanno lasciata sola, o quando ti hanno umiliata, tradita, messa da parte? La devono pagare! Falli pagare, adesso falli pagare! La vita di prima non si cancella, dice Fardusa rompendo il mio silenzio. Se hai vissuto bene o male la vita non si cancella. A chi lo dici, vorrei dirle, ma lei prosegue: Meglio pensare di andare avanti, sempre andare avanti. E cosa c’è avanti? le chiedo. Lei ci pensa un po’ su: la vita, e detto questo non dice più nulla.

Ma che vita c’abbiamo davanti noi due? Una vita vuota, una vita senza sogni, una vita in cui ci alziamo la mattina, andiamo al lavoro, rientriamo a casa, ceniamo e andiamo a letto e il giorno dopo uguale? Fardusa, le chiedo, a te piace la tua vita? Lei mi guarda come se non capisse la domanda. Voglio dire, c’è qualcosa che ti piacerebbe fare o qualcosa di cui senti il bisogno? Sempre hai bisogno di quello che piace, dice lei, poi, per la prima volta, abbassa gli occhi. Questa, dice indicando con lo sguardo una gonna beige e informe che le arriva fino ai piedi, questa mi piace. Io la guardo, guardo Fardusa in quei suoi occhi neri in cui non colgo più alcun barlume. I sogni sono i peggiori debiti che possiamo avere con noi stessi, mi disse mio padre prima di morire. Ma guai a non averne.

Il tempo dell’intervista è finito. Prima di salutarla faccio a Fardusa l’ultima domanda: Qual è il giorno più bello della tua vita? Sì, lo so, è la domanda che mi hai fatto tu ieri, gliel’ho voluta fare perché anche se il passato è passato come dice lei, anche se il passato è uno strozzino, come penso io, con questo strozzino noi c’abbiamo tanti debiti di riconoscenza. Il giorno più bello della mia vita, dice Fardusa, è quando ho messo piede in Italia. È stato come rinascere. Poi fa una pausa e aggiunge: La vita non è perfetta, ma non mi fa paura. E perché? le domando. Perché c’è Dio.

Io la guardo per l’ultima volta in quei suoi occhi neri così saldi in qualcosa che forse è Dio, forse è una concretezza senza speranze, e penso: e per me? Per me che ho mille paure e nessuna certezza, per me dov’è Dio? Quel Dio cui rivolgo una preghiera, una soltanto. È una preghiera che riguarda i debiti che Lui ha con me; sono debiti a forma di croce, debiti cui sono inchiodata senza una colpa o per colpa mia, debiti che un tempo imputavo alla brava gente che mi circonda, ai genitori, ai sani, ai vincenti: perché tu hai una famiglia e io no, gli dicevo, perché tu hai la salute e io no, gli chiedevo, perché tu hai realizzato i tuoi sogni, gli stessi sogni che io ho da una vita, e io no? Dammene un po’, gridavo a tutta quella brava gente. Dammi un po’ di ciò che mi manca! Tu me lo devi, gridavo, Tu me lo devi, grido oggi a Dio e come se mi ascoltassi tu dici: La provvidenza. Tutte le volte che ti guardo coi miei occhi tristi tu dici: Chiedi alla provvidenza, lei è l’unica che ti fa sempre credito, anche se non te lo meriti E guardando te che mi resti accanto, anche se non ti devo nulla, io penso: tutto quello che ho io proprio non me lo merito.

di Violante Sergi