· Città del Vaticano ·

La forza di rompere il guscio

 La forza di rompere il guscio   QUO-204
10 settembre 2024

«L’evangelizzazione avviene quando abbiamo il coraggio di “rompere” il vaso che contiene il profumo» ha detto il Papa nel discorso pronunciato oggi durante l’incontro con vescovi, sacerdoti, consacrati, seminaristi e catechisti nella cattedrale di Dili.

Il testo del Vangelo citato dal Papa è quello di Maria che rompe il vaso per ungere i piedi di Gesù una scena nella sua “sensorialità” molto cara a Bergoglio che ha spesso usato questa dimensione “olfattiva” del profumo, o dell’odore, nel suo linguaggio immaginifico. Ma c’è un’altra immagine che ha usato nella stessa frase che colpisce, quella di «rompere il “guscio” che spesso ci chiude in noi stessi e uscire da una religiosità pigra, comoda, vissuta soltanto per un bisogno personale». Alla tentazione della pigrizia comoda e autocentrata, il Papa risponde con le parole usate da Suor Rosa nella sua testimonianza, «una Chiesa in movimento, una Chiesa che non sta ferma, non ruota attorno a sé stessa, ma è bruciata dalla passione di portare a tutti la gioia del Vangelo». Le parole di suor Rosa corroborano la visione del Papa di una «Chiesa in uscita» che è un’immagine che il Papa propone da oltre undici anni al popolo dei fedeli. È necessario quindi, anzi urgente, avere la forza di rompere il guscio. Il guscio, come il nido, la tana, sono immagini calde, accoglienti, vitali, ma che possono trasformarsi nel loro opposto, possono diventare fredde, respingenti, mortali.

Il gesto di rompere il guscio richiama un’altra immagine esotica quanto efficace, quella dell’aragosta. Questo animale che tutti conoscono per la mostruosità della sua forma e apprezzano per la prelibatezza della sua carne, sviluppa un processo vitale molto interessante. L’aragosta infatti nasce nuda e quella “corazza” che la riveste spunta, progressivamente, in un secondo momento. La corazza, o carapace, un eso-scheletro, una sovrastruttura che al tempo stesso difende il mollusco ma anche lo ingabbia e infine lo tortura. Ad un certo punto quella corazza si rivela stretta e soffocante e l’aragosta dovrà disfarsene. Dovrà “rompere il guscio” e ritornare ad essere un mollusco nudo, vulnerabile finché non si forma una nuova “struttura”. Solo così, con questo passaggio-ritorno alla fragile nudità originaria, l’aragosta potrà continuare a vivere. Ciò non accade una sola volta ma si ripete nella vita dell’animale più e più volte: continuamente l’aragosta “muore e rinasce” e così diventa uno degli esseri più longevi della Terra, arrivando a vivere fino a 130 anni. C’è un saggio interessante, scritto dal professore Stefano De Matteis che affronta questo tema e si intitola appunto “Il dilemma dell’aragosta”, con un sottotitolo ancora più interessante: “La forza della vulnerabilità”: c’è un momento infatti in cui l’aragosta si ritrova nuda, inerme, indifesa, quando passa da una vecchia corazza, ormai spezzata, alla nuova, ma è proprio quel momento che segna la sua tenace vitalità, la sua forza, perché «quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor, 12,10).

Sin dall’inizio della sua storia, sin dal Vangelo stesso, la Chiesa ha elaborato tante immagini per dire e rendere comprensibile il proprio mistero alla propria autocoscienza. L’espressione del Papa, “rompere il guscio”, autorizza oggi ad aggiungere un’altra immagine, quella dell’aragosta. Anche la Chiesa ha bisogno, lungo la sua traversata negli agitati mari del mondo, di spogliarsi, di ritornare alla nudità originaria, di scuotersi di dosso le pesanti sovrastrutture difensive e di ri-centrarsi sull’essenziale, sapendo che, come più volte il Papa ha affermato: al centro della Chiesa non c’è la Chiesa. Lo ha ripetuto anche oggi a Díli parlando di Timor Est posto “ai confini del mondo”: «anche io vengo dai confini del mondo, ma voi più che io. E — vorrei dire — proprio perché è ai confini si trova al centro del Vangelo! Questo è un paradosso che dobbiamo imparare: nel Vangeli, i confini sono il centro e una Chiesa che non è capace di arrivare ai confini e che si nasconde nel centro, è una Chiesa molto malata. (…) una Chiesa che pensa alla periferia, invia missionari, si pone in quei confini che sono il centro, il centro della Chiesa. Grazie per essere ai confini. Perché sappiamo bene che nel cuore di Cristo le periferie dell’esistenza sono il centro: il Vangelo è popolato da persone, figure e storie che sono ai margini, ai confini, ma vengono convocate da Gesù e diventano protagoniste della speranza che Egli è venuto a portare».

Così oggi ha parlato il Papa al popolo festoso di Díli, e così ha sempre fatto la Chiesa in questi duemila anni soprattutto nei momenti di crisi, correndo tutto il rischio intrinseco a questo processo di disarmo e spoliazione. E proprio per questo è così longeva: cambiando continuamente forma esteriore e al tempo stesso mantenendo intatto il suo cuore, quella carne dolce e profumata che è celata e custodita nella sua più intima intimità ed è la carne di Cristo e del suo Vangelo. In questa immagine c’è tutta la sfida che in questi anni sta attraversando la Chiesa guidata da Papa Francesco, entrambi bruciati dalla passione «di portare a tutti la gioia del Vangelo». 

di Andrea Monda