Radicati e pellegrini
Il documento votato sabato dal Sinodo è la tappa di un cammino iniziato con il Concilio Vaticano ii , che prosegue e richiede di essere concretamente vissuto ad ogni livello nelle Chiese. È la presa di coscienza che la sinodalità rappresenta il modo di vivere e testimoniare la comunione. La Chiesa non è un’azienda né un partito, i vescovi non sono i “prefetti” di Roma, i laici non sono i meri esecutori di decisioni e direttive clericali.
La Chiesa è un popolo. Il popolo di Dio, che cammina insieme: la sua ragione di esistere non consiste nella gestione di strutture, burocrazie o poteri. Non è neanche quella di conquistarsi e difendere un proprio spazio nel mondo. La sua unica ragione di esistere è rendere possibile l’incontro con Cristo oggi, in ogni luogo dove le donne e gli uomini del nostro tempo vivono, lavorano, gioiscono, soffrono.
C’è dunque una modalità di vivere relazioni e legami, assolutamente peculiare ed evangelica. Un modo incentrato sul servizio, così come Gesù ha insegnato. C’è un modo concreto di prendere decisioni, di progettare, di agire che è già di per sé una testimonianza, specie in un tempo come il nostro caratterizzato da divisioni, odio, violenze, prevaricazioni.
Vivere la sinodalità significa dunque compiere un passo per attuare pienamente il Concilio. Significa prendere sul serio l’originalità — nel senso del radicamento all’origine — dell’essere Chiesa: una comunità dove c’è posto per ciascuno e dove ciascuno è valorizzato, una comunità di peccatori perdonati che sperimentano l’amore di Dio e desiderano trasmetterlo a tutti.
Il Sinodo sulla sinodalità, con le sue prospettive, chiede molto, a tutti. Chiede di cambiare mentalità. Chiede di non considerare la sinodalità come un’incombenza burocratica da attuare paternalisticamente con qualche piccola riforma di facciata. Chiede di riscoprire il desiderio di camminare insieme come modalità desiderata e non subita, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Chiede di mollare gli ormeggi e di osare, nella certezza che è il Signore a guidare la sua Chiesa attraverso il dono dello Spirito Santo. Chiede di ripensare il servizio dell’autorità, compreso quello del Successore di Pietro. Chiede un ruolo di maggiore responsabilità per i laici e in particolare per le donne.
È un’immagine di Chiesa i cui membri sono radicati — in un luogo, in una storia, in una comunità, in un contesto — e allo stesso tempo pellegrini, cioè in cammino, in movimento, in ricerca, missionari. Le strutture ecclesiali, in questa nuova prospettiva, non rappresentano più il luogo verso il quale i laici devono convergere, ma un supporto al servizio che il popolo di Dio svolge nel mondo. L’orizzonte del testo, che Papa Francesco ha voluto subito consegnare a tutta la Chiesa, è la missione, secondo la traccia stabilita dall’esortazione apostolica Evangelii gaudium, per far sì che “Chiesa in uscita” non rimanga un’intuizione o non finisca per ridursi soltanto a uno slogan, ma si realizzi pienamente e con il contributo di tutti.
di Andrea Tornielli