Che relazione esiste tra povertà e gioia? Nessuna sarebbe la risposta corretta. Invece è proprio la gioia, il frutto raccolto dalle suore missionarie di Sant’Antonio Maria Claret che, insieme a tanti volontari, si dedicano ai poveri. E per poterlo raccontare bisogna incontrarle a casa loro.
Non bisogna farsi ingannare dalle apparenze, la casa appare oltre le aspettative, ma il cuore pulsante è nella sua capacità di accogliere. Si comprende subito che non è una casa che appartiene a loro, al contrario, appartiene a tutti coloro che vogliono esserci.
È stato così anche per noi: enormi spazi che permettono ad ogni piccolo o grande gruppo di passare un tempo di condivisione e pace. Ad accoglierci suor Elaine, che per anni ha lavorato in Africa occupandosi degli ultimi, con grande passione e coraggio. Ora le spetta la gestione di questa casa situata nel quartiere Quartaccio di Roma, dalla quale tiene le fila e coordina anche tutti i progetti che le missionarie organizzano nel mondo.
Ma la bellezza di questa casa va oltre questa piccola sala di regia affacciata, attraverso gli schermi dei computer, su tutti i continenti. Per apprezzarla fino in fondo bisogna scendere al piano di sotto, dove incontriamo alcune delle altre suore della comunità: giovani provenienti da diversi paesi che ci accolgono con sorrisi e ci fanno accomodare intorno ad uno spazioso tavolo per condividere con noi la loro gioia.
Tutto è iniziato prima della pandemia, quando la casa è diventata il luogo d’incontro per un gruppo di giovani della zona. Si erano dati il nome di Fichi di marzo e si ritrovavano lì, con le suore, per pregare. Durante una lectio divina, pensarono che sarebbe stato bello poter fare qualcosa di concreto per i poveri. Loro, che vivevano in una zona nota per tutto tranne che per la ricchezza, volevano prendersi cura di chi si trovava in una situazione peggiore della loro.
Così si organizzarono per portare, una volta al mese, tè e biscotti e mettersi in ascolto degli abitanti del colonnato di piazza San Pietro. In quegli anni, i poveri erano all’incirca una trentina. Era facile fare amicizia.
Il Covid interruppe tutto o quasi, perché i giovani della lectio continuarono ad incontrarsi online e il loro numero crebbe: molti altri cominciarono a collegarsi anche da altre parti del mondo per pregare per i poveri.
Superata la pandemia, cominciò a farsi strada l’idea di fare qualcosa di più per gli amici senza dimora di piazza San Pietro. Perché solo una merenda e non una cena? A quel punto, l’impresa richiedeva però maggiore collaborazione. Cominciarono così ad unirsi anche alcuni adulti della parrocchia di zona nella preparazione del cibo: oggi vengono preparati 200 pasti alla settimana, poi distribuiti dai volontari della comunità di Sant’Egidio che fanno riferimento alla casa d’accoglienza di Palazzo Migliori, voluta da Papa Francesco proprio per dare un tetto a chi non lo ha.
Sono passati oramai quattro anni da quell’inizio e la cucina delle suore continua ad accogliere chiunque voglia aiutarle, persone che lasciano il lavoro o la casa solo per dedicare qualche ore alla preparazione della cena per i loro amici di San Pietro. La cucina si anima di spirito di condivisione e anche per i volontari è un momento importante per sentirsi voluti bene.
Chi lascia casa, famiglia e lavoro per ritrovarsi lì e preparare un pasto caldo per chi non ha di che mangiare, dice di farlo perché si sente leggero, perché impara ad amare, perché quando ritorna è più felice, perché qui trova famiglia, perché è un respiro.
Nel frattempo, mentre le suore continuano a raccontare, anche la nostra tavola ha cominciato a riempirsi di cibo. Entra in cucina Rosario, un fedele collaboratore delle missionarie, con le mani di un abile artigiano e contadino. Con la sua tuta da lavoro, porta un cestino di uva fragola e sotto alla dolcezza della frutta, rossi peperoncini perché molte delle suore sono asiatiche. E anche lui diventa parte della nostra tavola, come spesso succede da anni.
Le suore riprendono a raccontare e ricordano il presepe che realizzarono mettendo al posto delle statuette, anche quella di Gesù Bambino, le foto dei loro amici senzatetto. E fu proprio davanti a quel presepe che maturò la consapevolezza che non è sufficiente pregare per i poveri, ma bisogna farlo con loro. Il passo per rendere quell’idea una realtà fu breve. Quell’anno la loro novena di Natale si tenne nei pressi del colonnato di San Pietro, portando ogni giorno un simbolo diverso — un sasso della strada, l’acqua o una foto della montagna — e lasciando che questo permettesse la condivisione di una parola o di una domanda.
Furono nove giorni straordinari. E, nei loro ricordi, rimane il primo e vero Natale che abbiano mai vissuto.
Quando suor Elaine ci racconta questo, le si bagnano gli occhi e le suore si stringono in una gioiosa commozione. Ma anche in questo caso, la novena non poteva restare solo una immemorabile esperienza. Bisognava continuare.
Così il regalo di quel Natale fu la lectio divina con i poveri che ogni ultimo martedì del mese si celebra sotto uno dei due porticati che si affacciano davanti a piazza San Pietro. Un tempo semplice di preghiera dove ognuno, dopo la lettura del Vangelo, condivide quello che ha nel cuore. Per suor Elaine è un evento straordinario perché, nonostante abbia trascorso trent’anni anni di vita consacrata, è la prima volta che vive momenti di tale bellezza. C’è una differenza radicale tra il dare quello che si ha ai poveri e, invece, fare le cose con loro. Ci si sente loro amici, e i poveri si preoccupano per te.
Spesso, per i loro impegni universitari, alcune suore arrivano più tardi e, allora, sono i poveri che mettono da parte un pasto anche per loro.
Ci si siede a terra e si mangia insieme, si prega insieme e si condividono i frutti della preghiera. Non è questa la gioia più grande? Che ognuno diventi dono per gli altri senza nessuna differenza?
di Giuditta Bonsangue