Alle cinque del mattino, a casa di Paolo il caffè è già pronto. Il profumo sale, insieme agli sbuffi di vapore, da due caffettiere appoggiate sulla fiamma di un fornello da campeggio. Per entrare, accomodarsi e farsene offrire una tazza non c’è un campanello da suonare. In realtà, non c’è neanche una porta in questa casa affacciata su una delle piazze più belle del mondo. C’è, invece, l’amabilità di un uomo avanti negli anni che dorme qui, sui gradini di una libreria davanti alla Basilica di San Pietro.
«Ci vuoi lo zucchero?», mi ha chiesto Paolo la prima volta che ci siamo incontrati. Gli avrei risposto con la solita battuta che faccio quando qualcuno mi rivolge questa domanda, ma mi sono trattenuto. In verità, mi sono vergognato. Che ne so io di quanto è amara la vita? Io che, ogni mattina, scendo da un letto comodo, mi metto sotto una doccia calda e, se mi viene voglia, infilo ai piedi le scarpe da ginnastica ed esco a fare una camminata prima che il traffico delle automobili ammorbi l’aria. Che ne so io di quanto possa essere amara la vita di un uomo che non ha niente, solo una tenda che ogni giorno, alle cinque, deve smontare perché, poi, comincia il traffico di turisti e pellegrini?
È buono il caffè di Paolo. Con o senza zucchero. È dolce e amaro come lui. Come la vita.
Paolo è arrivato in Italia dalla Romania nel 2001. È arrivato, come tanti altri, in cerca di un lavoro per mantenere la famiglia rimasta a casa. «Di lavori ne ho trovati tanti e ne ho fatti tanti», racconta in un italiano che, nonostante il tempo trascorso, è ancora stentato. Prima manovale, poi giardiniere e addetto delle pulizie. Ha fatto pure il badante per un anziano della Garbatella. Ma quasi sempre lavori precari e sottopagati.
Aveva una casetta sua, in periferia, poi ha vissuto in qualche centro di accoglienza. E alla fine è arrivato qui, sotto uno dei due porticati che, alla fine di via della Conciliazione, si affacciano su piazza San Pietro. Insieme alle sue cose, raccolte in uno zaino e in una valigia, tiene sempre un secchio e una ramazza con la quale tiene lucido e pulito il pavimento di marmo del porticato. «I negozianti ormai mi conoscono — dice —. Sanno che non bevo, non mi drogo e non do fastidio. Si fidano».
Ogni ultimo martedì del mese la casa di Paolo diventa una chiesa. Tra le tende rimontate dopo la chiusura dei negozi e mentre passa ancora qualche turista, Paolo corica a terra la sua valigia e la copre con un lenzuolo. È l’altare intorno al quale raccoglie un gruppetto di amici — persone senza dimora, volontari della vicina parrocchia di San Gregorio vii e di qualche associazione, sacerdoti, religiosi e laici che col passaparola hanno saputo dell’appuntamento —. Poveri e ricchi, gli uni accanto agli altri, insieme per ascoltare e meditare la Parola del Signore.
La lectio divina itinerante è un’iniziativa della comunità di suor Elaine, missionaria della congregazione delle Missionarie di Sant'Antonio Maria Claret, che ha pensato che per le persone che vivono in strada non c’è bisogno solo di cibo e coperte, c’è bisogno di qualcos’altro.
Per le strade intorno a San Pietro non è raro vedere sovrapporsi, in una stessa serata, due, tre e anche quattro gruppi diversi di volontari che portano da mangiare alle persone senza dimora. In questa città, che tante volte giudichiamo indifferente e cinica, ci sono tanti che desiderano prendersi cura di chi è in difficoltà. È un bel segno di speranza. Ma un po’ di coordinamento, la conoscenza e la stima reciproca potrebbero aiutare a fare meglio e di più.
C’è bisogno di altro.
Se non vogliamo lasciare che questo mondo resti così com’è — da una parte chi ha e, quindi, se vuole può dare e, dall’altra, chi non ha, e può solo chiedere —, se crediamo veramente nella fraternità, dobbiamo imparare a fidarci e ad affidarci all’altro. Anche se puzza di vino o pensa di poterti manipolare per racimolare qualche spicciolo. La povertà non assegna in automatico una patente di bontà. Ma nei poveri si è identificato Gesù, il figlio di Dio. Ce lo insegna il Vangelo, anche quello aperto su un altare che è una valigia. La valigia di Paolo.
Per la Lectio dell’ultimo martedì del mese di settembre Paolo ha voluto fare le cose in grande. Mi ha chiesto di portargli delle lenzuola nuove, azzurre, e delle candele. Dalla vicina chiesa di San Lorenzino — il centro internazionale giovanile istituito da San Giovanni Polo ii quando cominciò a prendere piede la Giornata mondiale della gioventù — si è fatto prestare un grande crocifisso. Da altri una bella statua della Madonna. Agli amici della libreria davanti alla quale vive ha chiesto di lasciare fuori, solo per una notte, un vaso di fiori. E da un ripostiglio, che conosce solo lui, ha preso una grande sagoma di cartone di Papa Francesco perché vuole che ci sia anche lui.
Ma non gli è bastato. Con grande rammarico dell’amico fotografo che ha voluto accompagnarmi e che sta documentando in questi mesi la Roma perduta, quella che nessuno vuol vedere – anche se la preparazione al Giubileo dovrebbe farci fare tutt’altro –, ha chiesto ai suoi amici di strada di aspettare a montare le tende. Serve spazio per fare posto a tutti. Anche a un gruppetto di adolescenti, animato dalla comunità del seminario romano minore, che è venuto per portare qualche indumento. Per i ragazzini, però, è già tardi. Non possono fermarsi da Paolo, ma devono tornare alle loro case. Prima di andare, però, una tredicenne chiede: «Possiamo dire una preghiera per te?». «Certo — risponde Paolo —. E noi la diremo per voi».
La lettura è tratta dal Vangelo di Marco (9, 35): «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». La commenta brevemente padre Inaki Nicolas, un giovane basco dei Missionari figli del cuore immacolato di Maria. Poi, suor Elaine forma i gruppi e comincia lo scambio. C’è voglia di ascoltare. C’è voglia di dire, di portare fuori ciò che quella Parola ha smosso dentro. Il mio modo di fare volontariato è per servire o per dominare?... Non ho niente, non sono niente, posso davvero fare qualcosa per gli altri?...
La riflessione va avanti. E intanto arrivano altri amici, alcuni con le buste dei panni che hanno ricevuto dalla Croce Rossa e il sacchetto con la cena portata dai volontari della comunità di Sant’Egidio che hanno messo i loro carrelli in piazza Pio xii . Qualcuno si ferma davanti alla croce e si segna il petto. Altri proseguono verso i loro rifugi.
A me torna alla mente la fede di Olga. Me l’ha fatta conoscere un paio di giorni prima Jacopo, un giovane insegnante di religione che ho accompagnato sul litorale romano. Olga vive in una roulotte. Ha un figlio gravemente ammalato e tossicodipendente. Per lui ha lasciato il lavoro e la casa dove viveva. Da quando i medici del figlio le hanno comunicato una sentenza che non ha appello, non vive più, lascia che il tempo passi.
Siamo stati un po’ a chiacchierare seduti davanti alla sua roulotte. Il mare stava di fronte, ma Olga non lo guardava. Guardava il cielo e ripeteva: «Solo Dio può fare qualcosa, solo Dio sa…».
Abbiamo pregato insieme, Olga ed io. Senza dire niente. Olga che guardava il cielo con gli occhi gonfi di lacrime. Ed io che non so quanto possa essere amara la vita, ma che, dopo aver girato per tanti anni intorno a me stesso, sentivo di aver trovato quello che stavo cercando.
È la stessa cosa che provo stasera, davanti a piazza San Pietro,
accanto a un altare che è una valigia. È la preghiera di chi riconosce la propria impotenza e si affida. «Solo Dio sa…».
di Piero Di Domenicantonio