La buona Notizia
Per rimanere in ascolto
La fine del mondo è una storia senza fine. Nel corso dei secoli, i popoli hanno sempre temuto i cataclismi, vedendovi ora il capriccio degli dèi, ora la collera divina — come nel Diluvio — o ancora un crudele caso della natura. Nel xxi secolo, questa paura addita un altro colpevole: l’Uomo stesso. Ritenendosi padrone della Terra, l’ha sfruttata oltremisura, scavata, esaurita, distruggendo fauna e flora, generando mille forme di inquinamento e causando un riscaldamento climatico che ormai minaccia ogni forma di vita.
Marco si riferisce forse a questo quando riporta le parole di Gesù? «Dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo splendore e gli astri si metteranno a cadere dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte» (Marco, 13, 24-25). È un mettere in guardia contro l’arroganza umana che, pretendendo di controllare le stelle, il sole e la luna, innesca una catastrofe ecologica? Ricollocato nel suo contesto storico, questo discorso assume un significato diverso. Denunciando la credenza che gli astri, divinizzati dai popoli vicini, governino il destino degli uomini, annuncia l’estinzione delle idolatrie. Ma penso che evochi anche la fine del mondo che ognuno di noi sperimenterà al momento della sua morte: addio alla terra, alla luce e al cielo! L’universo scomparirà quando le nostre palpebre si chiuderanno per l’ultima volta. Saremo allora proiettati non alla fine dei tempi, come si dice impropriamente, ma alla fine del tempo, al di fuori del tempo. Gesù stesso lo proverà poco dopo questa sua dichiarazione.
«Quanto a quel giorno e a quell’ora nessuno lo sa […] neppure il Figlio». Gesù, che cammina sotto lo sguardo del Padre, ignora la risposta. Come potrebbe saperla? Si può prevedere solo ciò che si ripete. Tuttavia, la nostra morte accade una sola volta. Gesù ci invita a rinunciare al nostro desiderio di certezza, alla nostra illusione di controllo. Questi atteggiamenti nascondono un appetito di potere, l’ambizione smisurata di credersi uguali a Dio. Liberiamoci da questa tentazione. L’onnipotenza e l’onniscienza appartengono a Dio soltanto. È meglio, illuminati dalla sua parola, abbandonarsi a ciò che accade, acconsentire pienamente alla vita. La saggezza dell’umiltà consiste nel procedere semplicemente, passo dopo passo, nella fiducia.
Gesù non ci propone di unirci a una setta di iniziati che sostiene di sapere ciò che manca agli altri. Al contrario, ci invita a prendere coscienza delle nostre lacune sulle questioni essenziali e a seguirlo fedelmente. Questo testo smonta ogni pretesa di possedere una scienza superiore in quanto cristiani.
«Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno». Torniamo alla realtà, impegniamoci nell’amore, per l’amore, e soprattutto restiamo in attesa della vita piuttosto che della morte. Spiamo i suoi fremiti, le sue rinascite, le sue molteplici primavere. Guardiamo il fico: «Quando già il suo ramo si fa tenero e mette le foglie, voi sapete che l’estate è vicina. Così anche voi, quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, alle porte». I nostri contemporanei, spesso sopraffatti dalle informazioni ansiogene, dai farmaci e dalle droghe, dovrebbero osservare il fico che germoglia invece di focalizzarsi sul disastro.
Dobbiamo imparare ad attendere. «Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me» (Apocalisse, 3, 20). Di continuo, la porta può aprirsi e il divino entrare. Ovunque. In ogni momento. Rimaniamo in ascolto della salvezza che ci attende. Essa si rivela in un sorriso, in un paesaggio, in una frase, in una musica, in un incontro.
La fede non costituisce un sapere che altri non avrebbero; è un modo di abitare l’ignoranza, di mostrarsi infinitamente attenti, di coltivare l’amore e di sperare.
di Éric-Emmanuel Schmitt