La catena della fame:
Il nesso diretto tra guerre e crisi alimentari a livello globale non è più in discussione da molti anni e, se mai ce ne fosse ancora bisogno, a rimarcare questa venefica correlazione sono gli ultimi studi pubblicati dal Programma alimentare mondiale e da alcune tra le maggiori organizzazioni umanitarie non governative. Oxfam, nell’ultimo rapporto intitolato “Food Wars: Conflict, Hunger, and Globalization, 2023”, rilasciato in occasione della Giornata mondiale dell’alimentazione, spiega come il 90% degli oltre 281,6 milioni di persone afflitte da malnutrizione acuta nel mondo si trovi in 54 Paesi in guerra.
«Ogni giorno tra 7 e 21mila persone muoiono letteralmente di fame in Paesi lacerati da conflitti», sottolinea in un colloquio con i media vaticani Francesco Petrelli, portavoce e policy advisor per la sicurezza alimentare di Oxfam Italia. «In molti dei Paesi in conflitto, la fame viene sempre più spesso usata come arma di guerra — prosegue —. Un ulteriore elemento, che incide sull’insicurezza alimentare delle popolazioni e allo stesso tempo acuisce le situazioni di conflitto, riguarda il fenomeno dello sfollamento forzato, che oggi riguarda almeno 117 milioni di persone».
Alcune delle aree di crisi in cui questi processi sono più evidenti sono quotidianamente oggetto dell’attenzione mediatica internazionale, come avviene per la guerra nella Striscia di Gaza. Molte altre aree del pianeta sono invece quasi del tutto ignorate dall’opinione pubblica internazionale, nonostante abbiano un ruolo di rilievo a livello strategico ed economico. «Basti pensare al Sudan e al Sud Sudan, l’uno ricco d’oro e l’altro di petrolio o alla produzione del caffè in Burundi — spiega Petrelli —.Qui si pensa erroneamente che in considerazione dell’abbondanza di queste risorse i conflitti possano essere risolti o stabilizzati facendo ricorso a investimenti esteri diretti o alla liberalizzazione dei mercati, ma non è così».
D’altra parte rileva il rapporto di Oxfam in America centrale progetti sempre più estesi di estrazione mineraria hanno provocato conflitti violenti, costringendo intere comunità ad abbandonare le proprie case. «Non è certo una coincidenza – osserva Petrelli – che la combinazione letale di guerra, sfollamenti forzati e fame, spesso si verifichi in Paesi ricchi di risorse naturali. Incidere sulle cause di ingiustizia e diseguaglianze in questi contesti diventa dunque la condizione prima per avviarsi su una strada di normalizzazione e pacificazione».
Un ulteriore fattore di squilibrio riguarda proprio le diseguaglianze che producono e alimentano la crisi climatica, a sua volta causa della crescente insicurezza alimentare. «La diseguaglianza nelle emissioni di carbonio uccide! E non è una metafora, è la realtà – prosegue Francesco Petrelli –. Rileviamo situazioni grottesche per cui l’un per cento più ricco del pianeta produce la stessa quota di CO2 prodotta dai due terzi dell’umanità». Un tema quest’ultimo particolarmente sensibile se si pensa all’ultima Cop29 di Baku, in Azerbaigian, e alla mancanza di misure concrete messe in campo dai governi. «Per nascondere le inadempienze dei governi e delle istituzioni internazionali – conclude Petrelli - si agisce contro chi continua a denunciare le cause all’origine delle emergenze umanitarie».
Una situazione denunciata anche dalle Nazioni unite dopo la diffusione dei dati dell’Aid Worker Security Database: il 2024 è stato l’anno più letale mai registrato per gli operatori umanitari. Sono 281 quelli che hanno perso la vita mentre erano impegnati in operazioni di soccorso alla popolazione civile. «Gli Stati e le parti in conflitto devono perseguire i responsabili di questi crimini e porre fine a questa era d’impunità», ha dichiarato Tom Fletcher, neo-sottosegretario generale dell’Onu per gli Affari umanitari e coordinatore delle emergenze.
di Stefano Leszczynski