LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA
L’eventuale eternità
Del numero 5/2020 di «Vita e Pensiero», bimestrale culturale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, pubblichiamo il seguente intervento.
Il lockdown dovuto alla pandemia ha rappresentato, per il mondo come per la Chiesa, un Tempus clausum (così si definiva, in altre epoche, il “tempo chiuso” dell’Avvento e della Quaresima durante il quale erano proibite le feste pubbliche) imprevedibile, i cui effetti non si sono ancora esauriti. La crisi sanitaria è una crisi del tempo: una di quelle rare volte, da lunga data e su tale scala, in cui il presente, vissuto fino a quel momento come transitorio, ci è apparso reale o, in altre parole, si è presentato a noi in modalità di discontinuità. Ci ha brutalmente ricordato la verità, oscurata dal mito moderno del tempo progressivo e cumulativo, che l’imprevisto, ciò di cui non esistono precedenti, può accadere. Ogni crisi è rivelatrice. Questa ci fa vedere che noi, ben più che non dell’ennesimo virus, siamo ammalati di discordanza dei tempi: angosciati da un futurismo che non promette niente di buono (catastrofismo imperante) e un passato che dobbiamo affrontare come se, per una sorta di capovolgimento, avesse preso il posto del futuro (commemorazione e pentimento), ci troviamo reclusi in un presente che è diventato l’unica dimensione disponibile del tempo, un presente ridotto a “presentismo”, forma vuota di un presente senza presenza. Questo è, schematicamente, il male moderno del tempo.
Il cristianesimo, purtroppo, accusa l’impatto della modernità ben più di quanto non ne raccolga la sfida spirituale, quella della coniugazione dei tempi tra passato, presente e avvenire. Ciò supporrebbe che esso si riconnettesse con la sua inattualità originale, che qui intendo nel senso di Nietzsche: operare «contro il tempo e, in questo modo, sul tempo e, speriamo, a favore di un tempo a venire». Messo a nudo da un virus, ridotto ad apparire come il braccio spirituale degli Stati e a offrire loro la sua garanzia morale, il cristianesimo si trattiene dal confessare la propria disfatta spirituale. Avrebbe dovuto farlo, invece, non per battersi il petto ma per rinnovarsi. Gli sarebbe stato però necessario vivere come un autentico kairós il Tempus clausum che gli è stato imposto. Avrebbe forse allora scoperto che la virtù di un “frattanto”, consistente nell’abolire la fugacità degli istanti, gli offriva un’occasione di sospendere il tempo senza abolire l’avvenire, e non un’occasione di perderlo. Ho letto poco tempo fa le seguenti parole del responsabile della comunicazione di una diocesi che mi sembrano appunto rivelatrici di quanto sto provando a spiegare: «Ricuperare il tempo perduto: ecco la parola d’ordine delle scuole e delle imprese, ma anche della Chiesa». Quasi che la sfida spirituale stesse nel «ricuperare il tempo perduto»! Come per tutti i malati inconsapevoli di esserlo, non sono i loro sintomi che ci devono allertare, bensì la loro «salute artificiale» di cui parla Kierkegaard quando ammonisce: «Più che alla sua morte apparente, si tratta di strappare la cristianità alla sua vita apparente, che fra tutti i pericoli è il peggiore…perché in apparenza senza pericolo!». Quanto a me, mi chiedo se la «vita apparente» della Chiesa non consista appunto nel cercare sempre di «ricuperare il tempo perduto», come se le mancasse sempre il tempo per raggiungere la compiutezza che essa spera: incarnare infine quella che Jean-Luc Nancy chiama «l’equivalenza del senso e del mondo».
Nancy ritiene che il cristianesimo abbia sciolto questa identità a discapito del mondo e a vantaggio del senso (cfr. Quand le sens ne fait plus monde. Entretien avec Jean-Luc Nancy, in «Esprit», mars-avril 2014), ma ciò che oggi osserviamo è l’inverso: il cristianesimo trascura il suo senso sempre più incomprensibile a vantaggio della promozione del suo “essere al mondo”, una messa in scena che lascia peraltro il mondo indifferente…La Chiesa non vede che il mondo riceve dalla tecnica da esso prodotta una religiosità sacrale che non deve più andare a domandarle nulla, in cambio di qualche favore. Il mondo fa tranquillamente a meno di Dio perché è fondamentalmente pagano; per contro, esige una credenza (la Salute, il Progresso tecnologico, la Crescita), un rito (tutto è diventato “spettacolo”, apparenza di vita, spoglia di azione vera e di passione profonda) e un suo clero tecnocratico (i famosi “esperti”, tra i quali si trovano oggi in prima fila gli epidemiologi). La crisi sanitaria ci ha rivelato anche questo mondo, che “dopo” sarà quello che era già “prima”, ma in peggio. Se la Chiesa fatica a vedere il pericolo rappresentato dalla propria “vita apparente”, è probabilmente perché è andata costruendosi su un malinteso riguardo al suo senso nella storia: invece di partecipare alla storia adottandovi il punto di vista del mondo-a-venire, ha voluto essere la Storia. Ora, «ovunque vi sia Storia» – secondo il severo giudizio di Benjamin Fondane, acuto lettore di Kierkegaard e di Nietzsche – «questa basta a se stessa: siamo agli antipodi del religioso». A partire dal momento in cui la Chiesa basta a se stessa, diventa pagana, a immagine del mondo. Per riprendere Marx, ma sostituendo “filosofia” con “cristiano”, si può dire che il divenire-cristiano del mondo è, in pari tempo, un divenire-mondo del cristianesimo: la sua realizzazione è la sua perdita. Il mondo è rimasto pagano e lo diventa ancor più grazie al trasferimento della tecnica al sacro (e non l’inverso, come aveva ben capito Jacques Ellul), mentre il cristianesimo si ritrova “nudo”, senza “mondo” né “senso”. Certo il cristianesimo è riluttante a vedersi nella sua nudità, per questo si riveste di un abito molto comodo perché in apparenza contrario a tutto ciò che il mondo autosufficiente rappresenta: lo vediamo indossare l’umanesimo. Allo stesso tempo razionale ma senza eccessi, liberale ma con moderazione, individualista ma democratico, aperto al mondo ma legato alle “identità”, l’umanesimo calza come un guanto a questo cristianesimo che vuol essere simultaneamente “mondo” e “senso della Storia”. La Chiesa non ha forse interesse a brillare per il suo umanesimo, così da farsi perdonare il suo passato, la sua intolleranza e i suoi abusi? E perché mai ci sarebbe un pericolo, per il cristianesimo, a identificarsi con l’umanesimo? Perché l’umanesimo attinge i propri valori dalla credenza, più o meno conscia, che l’uomo basta a se stesso; e c’è questo di imbarazzante: non è possibile essere cristiani umanisti senza rinunciare a essere cristiani.
Qualcuno ribatterà: ma i valori evangelici non sono umanisti? Ebbene, io non lo credo. E non per la ragione che sarebbe falso tentare di rendere gli uomini un po’ più compassionevoli, un po’ più generosi, un po’ meno inclini all’egoismo brutale, o tentare di incitarli a un umanismo più profilattico, del genere “metti in pratica le norme di distanziamento”, “pensa agli altri pensando a te”, eccetera. Ma in maniera più fondamentale, perché l’umanesimo è effetto di un’astrazione: si riferisce a un uomo a priori, come dovrebbe essere in se stesso, dunque indipendentemente dall’appello a esistere che gli viene da fuori di sé. Tale indipendenza di principio su cui l’umanesimo si fonda è agli antipodi del Vangelo. Eppure, quel «cristianesimo originale» di cui parlava Nietzsche in “L’Anticristo”, che «sarà sempre possibile in tutte le epoche», non avrà in serbo un avvenire? Se il momento attuale ci richiede di reinventare il senso inattuale del cristianesimo, dobbiamo per questo essere presenti all’esperienza che è alla sua origine: atteggiamento “di fondo” peraltro estraneo a ogni concezione “archeologica” della tradizione. L’esperienza da cui il cristianesimo nasce procede da una duplice conversione: da un lato, nel prolungamento delle attese bibliche ma senza identificarsi completamente con esse, testimonia nel presente una presenza altra, la speranza di un mondo-a-venire che esclude a ogni istante di poter coincidere con il mondo o identificarsi con esso; dall’altro lato, fronteggiando la sacralizzazione della volontà di potenza dell’impero romano, afferma la libertà dello Spirito, libertà che può essere vissuta soltanto sotto la figura di umanità in cui essa s’incarna. In altre parole, all’origine sta un’esperienza che rendeva impossibile tanto una qualsivoglia identificazione con il mondo così com’è, quanto la fuga dal mondo e dalla storia in nome di una verità che non sarebbe umana. Se il cristianesimo non avesse finito per confondere il mondo e il senso, avrebbe potuto realizzare ciò che professava solo a fior di labbra: cioè che l’imminenza del mondo-a-venire, il quale non cessa di essere accolto nella speranza della fede, riapre, al contempo, il futuro e il passato. Riaprendo il futuro, libera le possibilità del passato; riaprendo il passato, rende effettiva e concreta la speranza di un a-venire di cui non è l’uomo la condizione, poiché è invece il mondo-a-venire che è la condizione dell’uomo. Si direbbe che il prezzo da pagare per attenersi a questa fede sia apparso troppo elevato ai cristiani, che si aspettavano forse che la loro nuova fede promettesse loro e il senso e il mondo. Ora, il Vangelo non promette né l’uno né l’altro. Quelli che vogliono il senso, il Vangelo li conduce sulla via del “senza senso”, che non è il senso né il non-senso ma una parola che il desiderio non sospetta nemmeno, e che Paolo chiama «il linguaggio della croce».
A quelli che vogliono il mondo, il Vangelo promette la remissione dei peccati, che Nancy interpreta appunto come «non volere più instaurare il mondo da se stessi e a propria misura» — il mondo-a-venire come uscita dal mondo della chiusura su di sé. In verità, il mondo-a-venire e il “senza senso” rimandano a una stessa modalità di essere — metaforicamente chiamati “Regno” o “Spirito” o, ancor più espressivamente, in termini di “Vita”. È per questo che non possiamo dire cosa sia il «cristianesimo originale» meglio che con questa parola tratta dagli Atti degli Apostoli: è la mètanoïa eis Zoè, la «conversione alla Vita» (At 11,18). “Conversione in vista della Vita, o per la Vita”: qui risiede la verità del cristianesimo e la sua forza, qui si trova anche una possibile via d’uscita riguardo al tempo. Condivido la convinzione di François Jullien che il cristianesimo possiede risorse inaudite per pensare e vivere la Vita (si veda il suo volumetto Ressources du christianisme mais sans y entrer par la foi religieuse ed. it. Risorse del cristianesimo. Ma senza passare per la via della fede, Ponte alle Grazie, 2019), questa “Vita viva” che il greco del Nuovo Testamento designa con il termine Zoè per distinguerla dalla bíos, la vita organica. Ora, ciò che la crisi sanitaria ha fatto emergere è appunto la focalizzazione esclusiva sulla bíos e l’assenza completa di considerazione per la Zoè, focalizzazione che Olivier Rey bolla a buon titolo come «idolatria della vita» (cfr. L’idolâtrie de la vie, Paris, Gallimard, 2020). Rey domanda: «A quali servitù siamo noi disponibili se concediamo alla “vita” la posizione suprema?». Su cosa si fonda questa «idolatria della vita»? Su quello che in noi non vuole morire, in altre parole su una segreta speranza di immortalità. Come un giorno qualcuno mi disse: «So di essere mortale, però mi sento immortale». Ciò che la minaccia attuale maggiormente rivela di noi è il nostro bisogno viscerale di essere immunizzati contro la morte (e anche contro l’angoscia e l’imprevisto), bisogno attorno al quale sembrano organizzarsi oggi tutte le attese della società come pure le risposte che forniscono gli Stati. Questo fantasma dell’immortalità è certo consustanziale all’apparizione dell’uomo, ma la modernità tecnoscientifica pare averne fatto il primo ingrediente della sua ideologia del progresso, dei suoi sogni trans o post-umanisti o, ancora, della promozione della bíos in cima a tutto il resto, vita ridotta alla questione della salute, come se vivere significasse, per gli umani, unicamente “non cessare di essere” (vita nel senso debole di sopravvivenza). Lo vediamo bene: è una concezione della vita agli antipodi del cristianesimo e, per questa ragione, rappresenta per esso un’opportunità per testimoniare l’inaudito di questa Vita viva. Sono stato troppo severo con la tentazione umanista del cristianesimo? È possibile. L’umanesimo esprime, nel profondo, una verità che è la stessa del cristianesimo: c’è solo l’uomo. Ma ciò che fa sì che ci sia l’uomo soltanto è precisamente questa Vita di cui l’uomo non detiene né il sapere né il controllo, questa Vita che è movimento di uscita da sé, movimento verso, che non trattiene nulla per se stessa.
La verità della vita è spossessamento o, con un termine frusto, amore (agàpe). Che la vita sia spossessamento, quando noi vi ci aggrappiamo per non cessare di essere, rende la sua verità inverosimile e la sua eventualità impossibile. Come se il vero della Vita potesse essere fatto coincidere con il verosimile! Come se l’eventualità di una Vita viva non fosse appunto dell’ordine dell’imprevedibile e dunque aperta solamente alla speranza della fede! Il cristianesimo insiste: «La vita si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi» (1 Gv 1,2). L’unica missione del cristianesimo è testimoniare questa eventualità, l’eventualità di una Vita che nessuna tecnica permette di anticipare o di controllare. Quel che l’uomo ha il diritto di domandare al cristianesimo è ciò che questo ha ricevuto in proprio: un nuovo pensiero della vita (la «Parola della Vita» in 1 Gv 1,1) che, lo ripeto, non ha niente di biologico (né di “bioetico” o di “ecologico” o che so io). Ma esiste forse compito più arduo del «libero uso di ciò che ci è proprio», come ha detto Hölderlin? Sì, c’è solo l’uomo, insiste il cristianesimo, a rischio di apparire inattuale – ma l’inattualità è la sua soluzione riguardo al tempo. C’è soltanto l’uomo, ossia l’uomo spossessato di sé, l’uomo che vive di una Vita che riceve da un Altro, dunque l’uomo sottratto al regime del senso e al controllo del mondo, l’uomo, perpetua risorsa di rinnovamento. Siamo entrati in un’epoca fatale poiché ormai è l’inevitabile che detta legge. Ed è questa fatalità che ormai, macchinalmente, la tecnica s’ingegnerà a rendere possibile. C’è per la Chiesa – e per il cristianesimo in generale – un’altra via possibile, un’altra soluzione sul piano del tempo? Sì, è la Vita viva, poiché è lei che da sempre e per sempre è la trama di un desiderio di eternità che coniuga origine e destino, necessità e libertà. Conveniamone: se il cristiano premoderno aveva il compito di testimoniare l’eternità di prima e di dopo il tempo, almeno potrebbe, nel mondo moderno, e contro il mondo moderno, testimoniare l’eventualità presente di quella Eternità.
di Dominique Collin