Ieri mattina sono andato all’Auditorium della Conciliazione all’inaugurazione degli Stati generali della natalità e mi ha molto colpito l’episodio che è accaduto proprio all’inizio dei lavori. Terminato il saluto del presidente De Palo, stava per parlare il ministro Eugenia Roccella, ma ecco che da un gruppo di giovani in fondo all’Auditorium è partita una contestazione rumorosa e scomposta al punto da impedire al relatore di parlare. Le persone che contestavano urlavano slogan e quello più volte ripetuto suonava, più o meno, così: «Sul mio corpo decido io!». (quell’io faceva rima con Dio che era chiamato in causa nel ritornello, ma non ho ben compreso come e perché).
Mi ha molto colpito, dicevo, perché mi è apparso tutto quanto come un potente déjà vu: avevo già vissuto quell’esperienza, ma tanti, tanti anni fa, durante i miei anni della scuola come studente e poi, dopo, durante quelli passati sempre a scuola, ma come professore.
Niente di nuovo, dunque. Anche il meccanismo per cui una piccola minoranza prende la parola, con metodi violenti, alzando la voce, e tiene in scacco tutti gli altri accusandoli di violenza e intolleranza; l’intolleranza dei “tolleranti”.
A parte l’irritazione e la tristezza per questo copione trito e ritrito, mi è sovvenuta alla mente anche tutta una serie di idee, argomenti, riflessioni che facevo già qualche decennio fa, quando mi ritrovavo coinvolto in situazioni analoghe su temi simili, se non identici. Infatti io ero all’epoca il professore di religione cattolica, quale migliore bersaglio per i contestatori? E quindi mi sono ricordato quello che dicevo all’epoca, ai miei giovani interlocutori, e come lo dicevo.
Due aspetti infatti qui si intrecciano, uno sul metodo e uno sul contenuto, e il primo non è meno importante del secondo. La questione del metodo, non è mai secondaria, “neutrale”. Ricordo dunque che avevo appreso uno stile comunicativo fatto più sull’ascolto che sul dire qualcosa, più sulle domande che sulle risposte. Una volta, durante un’assemblea degli studenti, mi accusarono con modi minacciosi e alzando la voce non per quello che dicevo, ma al contrario perché non rispondevo alle loro domande. A questa accusa risposi: «Io sono il professore, non do risposte, faccio domande». Ricordo ancora la loro irritazione. Erano infatti già sicuri di conoscere le mie “idee” ed erano pronti a inchiodarmi per aver confermato con le mie parole il loro sospetto sulla mia posizione “cattolica”. Le loro domande non erano infatti vere domande, ma provocazioni, trappole. Anche per questo spostavo il “campo” della discussione e spiegavo che era più giusto così, perché se avessi dato una risposta, quella sarebbe stata solo la mia risposta che non poteva essere imposta, dall’alto della cattedra, ai miei studenti. Il mio “modello” in fondo era Gesù che cercava la libera adesione del cuore delle persone e quindi anche lui faceva domande più che risposte, perché come ha detto Papa Francesco: «Dio ama le domande più delle risposte, perché le risposte sono chiuse, le domande restano aperte». E quindi nel mio piccolo dicevo: «Con le mie domande allarghiamo il tema, lo approfondiamo, e scopriamo insieme una verità più grande. Senza imporvi la mia risposta, vi aiuto con le mie domande a far emergere la vostra». Il risultato spesso era, in quel momento, una grande rabbia, sbollita la quale però poi poteva nascere, addirittura, una relazione più libera e autentica tra me e qualcuno di loro.
Una seconda riflessione che mi è tornata in mente è quella sul contenuto. Anche ieri mattina dunque la questione ha toccato lo stesso tema: la sessualità, il corpo. Che è “mio”, si rivendica, si grida, e quindi assoggettabile a qualsiasi decisione del “legittimo” proprietario. Mi colpisce ancora questa logica possessiva, proprietaria, che reifica tutto, anche il corpo umano, e lo abbandona all’onnipotenza del suo “padrone”. Decidere sul corpo come si potrebbe fare su un oggetto qualsiasi, un giocattolo, un telefonino. E ricordo come all’epoca cercavo di ragionare insieme ai miei studenti arrabbiati. La prima cosa era l’appropriatezza del linguaggio, anche qui sembra una questione metodologica, ma è molto di più. «Noi, esseri umani», dicevo, «non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo». E questo fatto non è un dettaglio, ma evidenzia una differenza sostanziale: non possiamo disporre di noi stessi come se il nostro corpo fosse un oggetto inanimato, costruito da mano umana. Non siamo proprietari, padroni, perché non siamo i “creatori” di noi stessi. Essere il nostro corpo vuol dire fare i conti con la nostra realtà, la verità della nostra esistenza, che non è segnata da un possesso determinato dal nostro potere creativo, ma piuttosto da un dono, ricevuto nella vertiginosa dimensione della libertà. Su alcuni aspetti della vita noi non possiamo decidere. Dove e quando nascere, con quale corpo, da quali genitori, “dentro” quale famiglia e quale lingua, con quali limiti fisici o mentali... e questo accade anche nel corso della vita, alcune cose sfuggono alla presa delle nostre mani: il nostro cuore e i nostri polmoni, che ci tengono umilmente in vita, lo fanno al di là della nostra decisione e volontà, sono muscoli involontari e questo grossomodo è una grande fortuna e “liberazione” (immaginiamo la fatica che dovremmo fare se dovessimo ogni secondo decidere di far palpitare il cuore!). E a proposito di cuore palpitante, pensiamo a uno degli eventi più importanti della nostra vita, l’amore: noi non decidiamo di chi innamorarci, di questo fatto così decisivo non ne disponiamo, come si suol dire «Al cuor non si comanda». Così come per la fede religiosa che non si può comandare, né imporre agli altri.
Potremmo dire che tutto questo è una condanna, e a volte tutto questo può apparire senz’altro come un grande peso, ma potremmo anche chiamare questa realtà, così profondamente umana, con un altro nome: dono. Forse il punto, che sta sotto tutte le discussioni sul fatto che «Il corpo è mio e decido io», parte dal mancato riconoscimento di questo dono. Non è facile riconoscere il fatto che tutto è un dono, che «tutto è grazia» per dirla con Bernanos, forse perché il dono spezza la logica del potere, sgonfia la superbia dell’io, tutte cose a cui non è facile rinunciare.
Quella vita nascente nel grembo materno non ha la forza per dire «Decido io», dice ancora solo «tu», rivolgendosi silenziosamente e con gratitudine alla madre che lo tiene in vita al di là della sua esplicita volontà. Passa qualche anno e quella vita, ormai nata e cresciuta, perché ha ricevuto il dono dell’accudimento e del nutrimento assicurato dalla relazione con le altre persone, potrebbe cominciare a pensare che non è vero che tutto è un dono, ma invece che tutto è un diritto, un potere da esercitare su tutti gli aspetti della propria vita, senza che nessuno possa impedirlo e frapporsi tra la volontà onnipotente dell’io e il suo obiettivo. E questa logica, che rinchiude l’individuo nella sua solitudine, viene chiamata libertà e anche “realizzazione”, un altro nome che oggi si usa per dire felicità. Ma qualcosa non torna, l’ho sentito di nuovo, ma chiaramente, anche ieri mattina all’Auditorium della Conciliazione, come lo sentivo e cercavo di farlo sentire ai miei studenti tanti anni fa.