La stagione estiva che si avvia alla conclusione ci ha catapultati tutti nel mondo dello sport: gli Europei di calcio a luglio, le Olimpiadi ad agosto poi le Paralimpiadi...Lo abbiamo dimenticato ma la parola “sport” viene da “diporto”, termine caduto in disuso che significa: spasso, svago, ricreazione. Fare una cosa per diporto, cioè “sportivamente”, vuol dire farla senza accanirsi per il risultato ma per il gusto, libero, spensierato e gratuito, di farlo. È significativo, purtroppo, il fatto che “diporto” sia una parola caduta in disuso. Con la parola è caduto anche il valore che essa conteneva. Tutti amano e seguono lo sport ma non si accetta più la “sportività”. Lo sport è diventato competizione e il valore che conta, l’unico, è il “valore” della vittoria. La sconfitta sembra non aver alcun valore, anzi, non avere nemmeno “cittadinanza”. Un noto allenatore di calcio durante un’intervista ha affermato: «La sconfitta è un concetto che per me non esiste».
Forse allora vale la pena rileggersi questa breve riflessione che circola su internet, attribuita a Pasolini, che ci ricorda l’altra prospettiva, quella della sconfitta: «Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta, alla sua gestione, all’umanità che ne scaturisce; a costruire un’identità capace di avvertire una comunanza di destino, dove si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati; a non divenire uno sgomitatore sociale; a non passare sul corpo degli altri per arrivare primo. In questo mondo di vincitori volgari e disonesti, di prevaricatori falsi e opportunisti, della gente che conta, che occupa il potere, che scippa il presente, figuriamoci il futuro, a tutti i nevrotici del successo, dell’apparire, del diventare. A questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde. È un esercizio che mi riesce bene e mi riconcilia con il mio sacro poco». Molto probabilmente si tratta di un “apocrifo”, lo stile non è proprio pasoliniano, ma questo conta meno; conta di più quell’espressione finale, “il mio sacro poco”. Quel “poco” che è sacro, perché non è mai così poco da sminuire di un’oncia la dignità di un essere umano.
di Andrea Monda