«Ho sfiorato attimi di sfiducia totale», gridava Anees, un giovanissimo papà, che, nel lasciare la sua amata terra, aveva già dimenticato come sognare e ormai il rischio di annebbiare la consapevolezza di sentirsi persona, ben che meno amata, era a un passo da lui. Ma la sua vita di preghiera ha vinto: «Dio mi ha aiutato a non cedere!».
Quando si è travolti nel ritmo di rincorrere la fortuna, il non sentirsi amati fa male, a se stessi e alla motivazione di riappropriarsi di sogni e desideri. Ma la preghiera è la migliore strategia intima e dunque sociale, in cui smarcarsi dal rischio della marginalità, perché essa appiana i conflitti con la preoccupazione della sopravvivenza, rimotiva la speranza e determina l’azione del riscatto.
Alla Casa della carità di Lecce, luogo di accoglienza per i senza dimora, ormai questo è un assoluto evidente, per accolti ed operatori. La preghiera difende, la preghiera cura!
Ecco perché da quel grido di una donna alcolista — «Non mi lasciare» — in una giornata autunnale di tre anni fa, disperata nella sua solitudine estrema, lì, seduta a piangere nell’ufficio preposto all’ascolto, con il volto pieno dei lividi dell’ultima rissa, è nata in me, operatrice di carità, l’esigenza di insistere su Dio, da garantire proprio a chi crede di essere meno fortunato “in amore”. In Simonetta ho contemplato lo stesso grido che Gesù, abbandonato sulla croce, lanciava a suo Padre! Mi ha fatto male; mi ha sconvolta e mi ha delicatamente condotta a prendere una decisione: agganciare i poveri a Dio, per consentire loro di ritrovare, in Lui, tutto di sé.
Me lo aveva già fatto notare Maurizio, mesi prima, quando nell’imparare le stazioni della Via Crucis, non riusciva mai ad andare oltre la seconda, quella del carico della croce sulle spalle di Gesù: «Allontanato da tanti, tenuto a distanza da molti, mi hanno messo sulle spalle il peso di essere considerato matto, un senza senso. Ma Gesù mi ha tenuto in alta considerazione perché io ero con Lui nella via della croce. Non sono un rinnegato, un buono a nulla, sono Maurizio, quello per cui Gesù ha sorriso tutte le volte che la croce gli faceva male e premeva».
Quanti ritrovamenti “di dignità”, nell’approccio tra Dio e il povero. La dimensione spirituale è sempre lo spazio migliore per fare i conti con il dolore, da guardare negli occhi, accettarlo, elevarlo e usarlo come punto di ripartenza.
Chi si dimentica quelle lacrime di Amelia! Voleva cambiare nome, in quella atroce sofferenza per una vita che le era diventata ostile e che desiderava diversa! Le bastò un incontro con Maria ed una semplice premessa: «Ricorda che la Madonna è donna e conosce il tuo dolore di donna e mamma ferita». Si calmò, all’istante. E piano piano si arrese, fino ad ammettere in una pubblica testimonianza: «Non volevo accettarti o Madre. Volevo stare lontana da te, da tutto e da tutti coloro che provano a spiegarmi la vita. Avevo perso fiducia nell’amore, perché quell’amore in cui credevo fermamente mi aveva solo procurato violenze fisiche e mi aveva portato via i miei figli. Piano piano, ti sei a me riaccostata, mi hai saputo sorreggere nella ripresa della fiducia, finché mi hai spiegato che nel tuo Figlio che soffriva per me, avrei ritrovato tutto. Ed il tutto è davvero ritornato. Senza la tua forza di mamma, io da mamma non avrei potuto riprendere a vivere».
Ad oggi le iniziative di preghiera con i nostri amici più vulnerabili ormai sono tante e con una efficacia alta. Dio è sempre la migliore soluzione di incentivazione motivazionale, di contenimento alla devianza, di emancipazione e vittoria! Ecco perché, durante l’anno, parte sempre qui a Lecce, dalla Casa della Carità, la proposta di un percorso di spiritualità mirato: i senza dimora, accanto ad amici operatori o semplici cercatori di fede tanto quanto loro, si dedicano alla cura dello spirito. Le chiese del centro storico diventano luoghi di appuntamento in cui, per non ghettizzare nessuno, alla pari, accanto a laici, diaconi e sacerdoti, nelle più svariate confessioni religiose, si coltiva il bisogno di affrontare la vita con Dio.
«Abbiamo visto l’amore vincere» e la sua seconda edizione «Dalla paura alla fede» sono state intense esperienze in tale direzione. Lunghi mesi di incontri in cui riappropriarsi della convinzione della necessaria cura spirituale, per superare la paura della sofferenza con l’arma della fede, alleare le due e ripartire nel riprendersi la vita.
«Siamo dovuti scappare da un regime di dittatura. Ci siamo dovuti dividere da mio marito io e la mia bambina. Siamo rimasti privi di tutto, anche di noi stessi, soli, quasi sull’orlo della disperazione. Ma Gesù è arrivato. La nostra croce la portava Lui. Ci hai consolati, donato fiato, incoraggiamento, incontri con persone amiche, curatori del nostro stare bene. Con Lui siamo ritornati a sognare il bene per il nostro amore e oggi possiamo dire di essere in piedi nella gioia della vita». È la narrazione della storia, che Maribeth racconta dopo aver ritrovato, in Dio, stabilità alla sua speranza e alla sua famiglia.
La preghiera si rivela sempre come esperienza dai benefici effetti proprio per l’aspetto motivazionale e dunque gestionale dei senza dimora coinvolti, ricontestualizzati e riorganizzati nella propria vita di fede. Quando c’è Dio, il grigiore è sopportabile, addirittura gestibile, chiaramente superabile.
È innegabile il travaglio interiore che scaturisce dal coinvolgimento in tali percorsi. Spesso ritrovo tanti amici che, smossi interiormente, sono quasi in preda ad un senso di smarrimento; è il momento in cui lo Spirito sta prendendo le redini in mano. E com’è bello ritrovare persone che abbandonano la disperazione, modificano mentalità, abbandonano costumi malsani, allenano la speranza, si educano nello stile della lode e della gratitudine, perché forti della confidenza del Dio che non abbandona nessuno.
«Continua ad ascoltare il mio dolore» è stata l’ulteriore spinta a non demordere in questo senso, quando in una giornata di ritiro, provavo a contemplare il crocifisso, facendo pace con le mie mille sollecitazioni del bene ed il bisogno di silenziare i rumori inutili dell’egoismo e della indifferenza. Ho custodito gelosamente questo orientamento del Dio Spirito e nel farlo ho capito sempre più quanto il dolore abbia bisogno di un ascolto spirituale che solo la preghiera può assicurare. E da qui un altro lancio, quello del prossimo mese: «Quindici minuti con Gesù». Incontri in cui pregare insieme, disciplinare nella stabilità lo stile della preghiera del cuore e ricercare, nella Parola del giorno, i lineamenti identitari della affascinante figura di Gesù, da frequentare di continuo. Tutto con un ritmo più ordinario e non dilazionato.
L’amore va nutrito ogni giorno e riconciliato con il dolore, che mai ne deve diventare antagonista, ma alleato! Non avrebbe senso soddisfare la richiesta di quei 160 poveri affamati che bussano ogni giorno alla nostra Casa, se non si fornisse loro in primis Colui che soddisfa ogni riuscita e realizza ogni risurrezione!
di Simona Abate *
* Responsabile centrale dell’istituto secolare
Servi della sofferenza
e coordinatrice della Casa della Carità di Lecce