Raccontare la guerra è sempre difficile. Perché significa raccontare l’orrore. Raccontare il male che, per sua natura, non si può spiegare, perché è «l’assenza di spiegazione» come ricordava Paul Ricoeur, il quale però aggiungeva: «Il male non si può spiegare ma si può raccontare». Da qui la sfida: raccontare l’inspiegabile, l’assurdo, l’indicibile. E raccontare in particolare la guerra che da un anno si combatte in Medio Oriente per alcuni aspetti è ancora più difficile, non solo perché è una vicenda che gronda di crudeltà e di orrore, ma anche perché questa tragedia impatta in modo forte sulla coscienza civile e politica occidentale poiché, in qualche modo, essa è figlia di quel più grande orrore, il più grande degli orrori, che fu la Shoah.
Le testimonianze che pubblichiamo oggi nelle pagine degli “Approfondimenti” sulle criticità che si incontrano nel racconto della guerra sono forti, inquietanti perché vengono da chi la guerra non solo la racconta ma la vive quotidianamente con una grande dedizione e anche con qualche pericolo. Ma soprattutto perché propongono una lettura che spesso sfugge a chi la guarda da lontano. Non ci sono solo aspetti militari o politici a caratterizzare questo conflitto, ma anche e soprattutto sottili questioni di carattere antropologico, culturale, storico e religioso, che a volte non vengono considerate forse per un malinteso senso del politically correct.
Da queste testimonianze emerge la constatazione, fondamentale per comprendere la complessità della situazione, di una assai diffusa lettura polarizzante di questa guerra. Che è poi figlia della micidiale e più generale tendenza alla polarizzazione che inquina il pensare in questi tempi difficili e confusi. L’unico vero antidoto a questo veleno è la rappresentazione vera, onesta e non partigiana della realtà, fedele alla sua complessità così come ci viene spesso raccontata proprio da chi è sul campo. Per questo è importante leggere queste testimonianze per noi, giornalisti e lettori, «noi che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case» in modo da ascoltare con più attenzione e rispetto le voci di chi si trova su quel campo. E anche con meno paura, o con la capacità di discernere e distinguere ciò che chiamiamo prudenza ma spesso è solo paura.
Senza paura, quindi, ma con passione per la verità, continuare a raccontare il male, l’orrore. È questa la sfida che i giornalisti hanno di fronte, sempre e soprattutto quando raccontano la guerra, «la cosa di cui scriveva Omero» come annota C.S. Lewis nella pagina della sua autobiografia qui sotto riprodotta. Raccontare la follia della guerra senza mai dimenticare la pietà, l’empatia per tutto ciò che è umano. La poesia in Occidente nasce con un racconto di una guerra in Medio Oriente, sulle coste della Turchia. Omero nel suo modo poetico ci racconta la madre di tutte le guerre e bisogna sempre ricordarsi che l’Iliade inizia sì con l’ira di Achille, l’invincibile eroe degli Achei, ma si conclude con le sue lacrime di fronte al vecchio padre che richiede il corpo del figlio ucciso e l’ultimo capitolo del poema greco si chiude con l’omaggio a Ettore, il nemico dei Greci, il vero eroe di questo poema perché portatore di un volto umano anche sotto il terribile elmo di guerra.
di Andrea Monda
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