Da oggi fino al 22 novembre, a Baku in Azerbaijan, avrà luogo la 29ma Conferenza Mondiale per il Clima organizzata dalla Unfccc, la Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici.
Come ci ha tristemente ricordato la tragedia di Valencia, di cambiamento climatico oggi si muore con una frequenza senza precedenti, e nessun Paese può considerarsi al sicuro. In Italia, ad esempio, il Centro di Ricerca Enea ha monitorato il clima per 259 giorni consecutivi del 2024, registrando 1.900 fenomeni atmosferici fuori norma: 1.023 nubifragi; 665 grandinate con chicchi di grandi dimensioni; 212 tornado. Nonostante questo, nello stesso anno abbiamo raggiunto il nuovo record nella concentrazione di Co2 in atmosfera con un picco di +4,7 parti per milione rispetto ai valori del 2023. «Questa recente impennata mostra quanto dobbiamo ancora fare per stabilizzare il sistema climatico — ha affermato Ralph Keeling, direttore del Programma Co2 presso lo Scripps Institution of Oceanography —. La stabilizzazione richiede che i livelli di Co2 diminuiscano rapidamente, stanno invece aumentando più velocemente di sempre».
Bisogna considerare che per decine di migliaia di anni prima della rivoluzione industriale, le concentrazioni di Co2 in atmosfera non hanno mai superato le 300 parti per milione, e questa concentrazione ci avrebbe assicurato almeno altri 40mila anni di stabilità climatica. L’industrializzazione ha invece generato una pericolosa crescita esponenziale di questo valore, nonostante la scienza ci abbia sempre avvertito che il superamento delle 400 ppm avrebbe reso il cambiamento climatico irreversibile e che traguardare le 450 ppm ci avrebbe messo a serio rischio di estinzione. Oggi la concentrazione media di Co2 è di 420 ppm e il picco del 2024 ci ha portato a sfiorare le 424 ppm.
Insomma, non c’è da stare allegri. Ad aggravare la preoccupazione, alla vigilia della Cop29, c’è oltretutto anche la notizia, apparsa sul Wall Street Journal secondo la quale fra i primi provvedimenti che saranno firmati dal nuovo presidente degli Usa, Donald Trump, c’è l’uscita dagli Accordi di Parigi sul clima. Il mondo industrializzato non vuole rinunciare ad una crescita continua della produzione e dei consumi — e quindi delle emissioni — e le economie emergenti rivendicano il loro diritto ad inquinare per raggiungere gli stessi livelli di benessere dell’occidente. Come se non bastasse, sullo sfondo ci sono decine di paesi poveri ancora in attesa di poter sviluppare la propria economia, per i quali la speranza di farlo in modo sostenibile è per loro troppo costosa.
Qualcuno continua a dire che il problema non lo riguarda. Ma pensiamo solo per un attimo cosa significherebbe per tutti noi, se i 2,4 miliardi di persone che oggi utilizzano l’energia in quantità insufficiente anche a soddisfare le esigenze quotidiane, insieme ai 770 milioni di persone che non vi accedono affatto, cominciassero ad utilizzare l’energia elettrica come fa oggi un occidentale medio. Nei paesi sub-sahariani il consumo medio di 150-250 kilowatt pro-capite annuo arriverebbe velocemente ai 3-4000 kilowatt di un italiano medio per poi tendere ai 12.000 Kilowatt di uno statunitense medio. Il pianeta sarebbe molto presto al collasso! Ecco spiegato quanto sia urgente che i Paesi membri delle Nazioni Unite definiscano, di comune accordo, una politica finanziaria che metta i paesi poveri nelle condizioni di emanciparsi dalla propria condizione attraverso uno sviluppo rigorosamente sostenibile. La finanza necessaria è decisamente importante — si parla di almeno 1000 miliardi annui e la stima è giudicata dagli esperti ancora bassa — ma è del tutto evidente quanto la sua priorità sia assoluta, per la vita presente e futura di ognuno di noi. Di finanza verde si è parlato anche nelle Cop precedenti, ma bisogna capire che la Cop indicata dalle Nazioni Unite per affrontare, in modo organico, questa annosa questione è sempre stata la Cop29 e non è quindi in alcun modo possibile sottovalutare l’incontro come da molte parti si sta facendo. Complice l’inasprimento dei pericolosi conflitti in Medio Oriente e in Ucraina, oltre all’esito poco ambientalista delle elezioni americane, la Conferenza di Baku sta registrando defezioni preoccupanti da parte dei leader mondiali. Primi tra tutti Joe Biden e Ursula von der Leyen, ai quali hanno fatto eco capi di governo di paesi molto significativi come Cina, Australia, Giappone e Messico.
La convinta partecipazione dei Paesi maggiori inquinatori è chiaramente decisiva per il successo di questa Cop, perché la voce dei loro leader può contribuire, più di ogni altra, a trovare un accordo tra chi inquina e chi deve ancora sviluppare la propria economia. Guardando alle emissioni complessive nazionali, la Cina è oggi il primo inquinatore a livello mondiale con più del 28% delle emissioni totali prodotte nel 2023; seguono Usa al 15%, India con il 7%, Unione Europea al 6%, e Russia al 5%.
Come possa un politico alla guida di un’intera nazione abdicare all’impegno fondamentale di assicurare ai propri cittadini diritti imprescindibili come l’aria, l’acqua, le stagioni o il cibo, resta un vero mistero. Milioni di persone muoiono ogni anno a causa della crisi ambientale e decine di milioni di persone sono forzate alla migrazione dai paesi più colpiti. La qualità delle nostre vite, come anche delle nostre economie, viene compromessa ogni anno di più da questi fenomeni dei quali ha ormai cominciato a preoccuparsi perfino la fredda finanza, in ragione delle crescenti perdite economiche dovute ai disastri ambientali. Eppure un leader chiamato a definire la politica mondiale sul clima preferisce non partecipare e rinuncia a dare il proprio contributo personale. Perché?
Segnali di un multilateralismo in crisi, sicuramente. Segnali di una geopolitica mondiale sempre più tesa e limitante dell’amicizia tra i popoli che dovrebbe essere alla base di ogni politica mondiale. Ma anche segnali di una politica sempre più incapace di visioni luminose, di slanci costruttivi, di sacrifici audaci. Come possiamo sperare di avere la meglio su un pericolo letale come il cambiamento climatico, se lasciamo che la Cop assomigli sempre più ad una fiera del green, nella quale si fanno affari sul petrolio e sul gas, come ha recentemente rivelato uno scoop della BBC?
Come possiamo pensare di affrontare l’immanenza di tragedie planetarie come le crescenti disuguaglianze tra nord e sud del mondo, o la morte per fame di oltre 15mila bambini ogni giorno, o le gravissime violazioni dei diritti umani che vengono perpetrate sistematicamente ad ogni latitudine? E anche volendosi concentrare solo su finanza e tecnologia, come possiamo guidare lo sviluppo globale di rivoluzioni come quella promessa dall’intelligenza artificiale, in un regime di concorrenza spietata dove il dialogo tra le parti viene sistematicamente falsato da interessi iper-speculativi? Esistono solo due modi per affrontare una crisi planetaria: il primo è quello di affidarla ad un governo globale dove il potere decisionale appartiene ad un organismo sovranazionale al quale tutti devono necessariamente sottomettersi; il secondo è quello di trovare un accordo tra le parti e condividere priorità e regole alle quali devono poi tutti rigorosamente attenersi. Tertium non datur!
di Pierluigi Sassi