Il racconto del sabato

Milano, Nascita

 Milano, Nascita  QUO-003
04 gennaio 2025

Rashid cammina e il tintinnio dei soldi lo segue passo passo, soldi rubati dal petto d’una vecchia qualsiasi, sotto un qualsiasi portico della città nuova.

Ha paura delle ombre, dei corpi che gli passano a fianco, paure che qualcuno gli gridi contro: «Tu Rashid sei clandestino e ladro, marrone di pelle a tredici anni appena, tu vergogna del mondo, odiato che odia senza speranza».

Rashid a questo pensiero cammina più forte, solo quel gruzzolo di soldi nuovi, tanti dorati come dobloni, lo fa respirare e lo tiene in vita.

Da un angolo spento di luci e vita una mano lo agguanta, gli prende un braccio e una voce di donna gli chiede caritatevole aiuto, Rashid è uno scatto d’animale divenuto preda, si libera e nella sua lingua melodiosa le urla che è pronto ad ammazzare per il suo tesoro di carta e moneta, la mano sparisce e insieme quella voce di vinaccia, dal buio venuta e nel buio, sua casa, già ritornata.

Rashid suda ma cammina, cammina nella direzione che le sue gambe hanno scelto, poi si ritrova in una piazzetta e si sente scoperto, crescono di fianco a lui grattacieli alti come il cielo, e la paura lo affanna, come un gigante gli cinge il petto e gli mozza il respiro. Immagina che una voce dall’alto del palazzo più alto tuoni il verdetto: «Tu Rashid sei maledetto, il tuo odio si tramuterà in mille altri mari da attraversare, mai una casa ti si aprirà di fronte».

Da lontano sente parole nella sua lingua, per un attimo è lì che si appresta ad andare, ma sentendo bene quelle parole, sporcate da un accento d’alcol e cariche d’odio fratello verso fratello, decide di continuare per la sua misteriosa direzione.

Un profumo di pane e biscotti gli ricorda tutta la fame, barcolla tanto da poggiarsi a un muro sporco di disegni e colori, non può fermarsi, non può rischiare d’essere scoperto, riesce a dominare i lamenti che salgono dallo stomaco, c’è però una fame, una specie di desiderio, che non ne vuole proprio sapere di passare, qualcosa che a parole non riesce a spiegarsi, ma che lo tormenta da quando in lui è vivo il ricordo.

Riesce a continuare, persevera nella direzione che le sue gambe hanno scelto, una sirena lo tramuta in pietra, si paralizza come una statua viva per sbaglio, dalla macchina scendono due poliziotti, è proprio lui che cercano, e lui che iniziano a rincorrere.

Rashid è tutto nelle sue gambe senza fiato, scopre la differenza fra correre ed essere braccato. S’infila nella stazione di una metro, i poliziotti gli sono sempre dietro, con un balzo salta i tornelli, ma loro non si fermano, anzi, sembrano sempre più vicini. Arriva alla banchina di una stazione dal nome strano, Moscova, è piena di gente in attesa e la metro sta arrivando.

«Fermati!!!!» urla uno dei poliziotti.

Tutti si voltano verso di lui. E si allontanano. Resta in mezzo alla banchina, solo, come un appestato. Non ha tempo per pensare, tempo per decidere. Le sue gambe riprendono a correre, corrono verso il treno della metropolitana ormai arrivato. Agile come un gatto schizza in direzione dei vagoni ancora in movimento, molti urlano pensando che la sua sia la corsa finale di un ragazzo che vuol darsi alla morte.

Invece, s’infila nello spazio minimo fra i vagoni e il tunnel della metro.

«Torna indietro, lì c’è l’alta tensione, rischia di morire». È ancora la voce tonante di un poliziotto a inseguirlo, chissà cosa dice nella sua lingua, ma a Rashid non interessa, perché i suoi nemici lì dentro non lo hanno inseguito, a parte quella voce niente altro arriva di loro.

Continua a correre dentro quel budello scavato nella terra, dove il buio più assoluto si rischiara a distanza regolare grazie a una luce bianca appesa alla parete. Si ferma a riprendere fiato, è fradicio di sudore e le gambe gli tremano per la paura e la fatica. Il buio gli entra dentro le ossa, non vede a un metro, dalle viscere si alzano le parole di sua nonna, quando, da bambini, a lui e ai suoi fratelli parlava dei Jinn che strappavano la ragione dalla mente dei bambini, mai dovevano avventurarsi nelle case abbandonate, mai nei campi al confine della terra di nessuno.

Rashid, ormai, è tutto nella sua corsa, riprende a far frullare le gambe al suo massimo, ora il nemico non porta nessuna divisa, ma è l’incubo che lo ha accompagnato da tutta l’infanzia. Sarà proprio lui, un Jiin, a fargli pagare il male che ha fatto, un Jiin mandato da Allah per ricordargli che al male corrisponde male, che ai facili guadagni corrisponde solo che sventura.

Da lontano, come un terremoto, fa appena in tempo a rendersene conto: di fronte a lui, veloce come sasso scagliato da una mano fortissima, ecco il muso di un treno della metropolitana. Rashid, con le ultime forze, fa appena in tempo a gettarsi di lato. I vagoni gli passano a pochi centimetri, gli sfiorano la punta delle scarpe bucate.

Finalmente, come un dono del cielo, una stazione della metro.

Quando gli astanti lo vedono comparire dal tunnel si allontanano più che possono, ma a Rashid non importa, quello che gli interessa è capire se i poliziotti lo hanno seguito, raggiunto in questa nuova stazione. Ma di divise non c’è traccia.

Che bello tornare all’aria aperta, al cielo freddo, ma pur sempre cielo, non esistono cieli diversi, è uno solo, e quello che sovrasta questa città fredda d’Europa è lo stesso caldo e gentile della sua terra, quello dove le stelle si fanno guardare con timidezza, non come questo dove le stelle, per paura, indifferenza, sono scappate vie oltre l’occhio dell’uomo.

Rashid riprende fiato e forze, ora stringe quei dobloni d’oro nelle tasche come una vittoria. Di fronte a un negozio illuminato a festa, pieno di specchi pronti a rivelare, Rashid si vede, un po’ ci mette a riconoscersi, è lui, proprio lui, quello sporco e affannato, ora fermo in mezzo a coppie abbracciate, figli in carrozzina, e ragazzi e ragazze che non si accorgono che lui è lì, e lui vorrebbe che la terra sotto i piedi sprofondasse, non essere nato, ecco l’unica cosa che ora vorrebbe dal cielo.

Dalla strada un rumore sordo lo fa voltare, rossa e scintillante una macchina disegnata dal vento, sinuosa come un felino. Sogna Rashid. Di correrci per le strade del suo paese, guardato dagli amici di un tempo, da quella bimba che a nove anni gli rubò il pranzo e anche il respiro.

Triste e zoppo un vecchio, preso a discutere con il vento chissà quale questione, gli fa tornare in mente suo nonno, le sue favole e preghiere fino a una malattia che gli tolse la parola e pure la ragione, perché prese a litigare con le tavole di legno che da sempre intarsiava. Una mattina il nonno si lasciò morire. A lui rimase il suo tappeto da preghiera e una luna di legno grande come una moneta.

Un’altra piazza lo affronta. Questa volta il cielo lo schiaccia. Ma lui è più forte e continua ancora.

Ma una sconosciuta, immensa sorpresa, per un attimo lo arresta.

Non può non girare la testa verso quella voce di violino che lo chiama dal marciapiede di fronte.

Rashid non se ne accorge, ma le sue gambe hanno ora un’altra direzione, o quella che da sempre, oscura, hanno inseguito. Si ferma davanti a un giovane bianco come latte di capra, e piccoli occhiali tondi sugli occhi. E quel suo violino che continua a parlargli, a suonare solo per lui, per Rashid, nessun altro al mondo.

Passa come un lampo il tempo, o forse non passa, forse neanche il tempo ascolta quella musica che è per lui solo, e lui quella musica dalle orecchie se la porta sino alle viscere, e lì ci costruisce una casa fatta di tregua e pianto, pianto che arriva sulla bocca e gliela spalanca in sorriso.

Rashid prende una manciata del suo tesoro di dobloni e cartamoneta, lo mette nel cappello poggiato in terra dell’occhialuto ragazzo. Ma non basta. Prende tutto quello che gli resta nelle tasche e lo rovescia per dire grazie.

Va via Rashid. Ma il violino lo richiama. E lui ritorna.

E pezzo alla volta, fra lo stupore degli accorsi, Rashid si spoglia, dona di sé tutto quello che conosce, la maglia di settimane portata sulla pelle, i pantaloni che una volta erano di suo fratello scomparso, le scarpe girovaghe come la sua vita.

Rashid è lì, nudo tra la gente, ora il suo corpo non trema più per la paura.

Ma solo per il freddo.

di Daniele Mencarelli


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