La buona Notizia
Il Vangelo della II domenica del tempo ordinario (Gv 2, 1-11)

Un miracolo bizzarro
ma necessario

 Un miracolo bizzarro ma necessario  QUO-010
14 gennaio 2025

di Mariapia Veladiano

Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni, scrive l’evangelista Giovanni. È il primo miracolo di Gesù e c’è un solo primo miracolo, unico per la sua posizione temporale, e ci si può aspettare che sia sfolgorante, per il suo significato esemplare, qualcosa che lasci il mondo stupito e si racconti aggiungendo ogni volta particolari singolari. Ma in questo caso si può facilmente obiettare che non fosse un miracolo così ammirevole, unico e necessario. Ci sono religioni che diffidano del vino, a esempio, perché fa perdere il controllo, ci sbilancia. Chi beve barcolla con poco, il mondo perde il suo centro. La Bibbia sa che il vino è pericoloso: «L’ubriachezza accresce l’ira dello stolto a sua rovina» (Siracide, 31, 30). Ma sa che serve alla festa: «Che vita è quella dove manca il vino? Fin dall’inizio è stato creato per la gioia degli uomini» (ibidem, 31, 27). Pane e vino, ogni tavola richiede entrambi.

Nella nostra logica religiosa, dove il bene ha una “misura” rassicurante definita dal buonsenso, da una moralità formale e controllata, da una lettura del Vangelo secondo quello che riteniamo un concetto di bene accettabile e circoscrivibile, questo miracolo è bizzarro; lo celebriamo perché è nel Vangelo autorevolissimo di Giovanni, però viene la tentazione di metterlo nelle verità en passant: d’accordo, però vediamo che cos’altro ha da dirci Gesù. Ma qui Giovanni dice che da questo primo segno inatteso i discepoli lo riconoscono. È un’espressione forte e definitiva. Riconoscono il Messia atteso. Hanno visto qualcosa. Altre volte nel Vangelo ci troviamo a chiedere: ma che cosa hanno visto? Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, aspetta il «conforto d’Israele» (Luca, 2, 25), cioè il Messia, e il giorno in cui incrocia  un bambino portato da due genitori qualsiasi con solenne certezza proclama di poter morire perché i suoi occhi hanno visto la salvezza, «gloria» del popolo di Israele.

La gloria in un bambino esposto in mille modi alla morte precoce. Nascere non era garanzia di diventare grande, all’epoca di Gesù. Nemmeno ora, in tanti posti della Terra. Al capo opposto, alla fine della vicenda storica di Gesù, il centurione che assiste alla crocifissione dice: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!» (Marco, 15, 39). Perché? In realtà vede un uomo condannato e morto. Due estremi. Un miracolo eccessivo e non tanto utile e una morte vergognosa di un uomo crocifisso per riconosciuta colpevolezza. Che cosa hanno visto? Forse una vita “amabile”, che si può amare. Qua all’inizio c’è la gioia di un miracolo sovrabbondante e non necessario, di un corrispondere a una richiesta che viene dall’attenzione di una donna, che non fa storia perché gli invitati nemmeno se ne accorgono, probabilmente già ubriachi, ma se riconosco la gioia riconosco la buona notizia. Che si può vivere, in compagnia della gioia. Del Signore. Là, alla fine, c’è una morte accolta, affidata, vissuta. E se questa è la morte, allora ancora una volta possiamo riconoscere che con Gesù si può vivere, vivere, vivere.