La Nota «Gestis verbisque» del Dicastero per la dottrina della fede / 6

Il dono, la celebrazione
e il potere

 Il dono, la celebrazione  e il potere  QUO-012
16 gennaio 2025

di Loris Della Pietra*

I mezzi di comunicazione hanno rilanciato negli ultimi tempi alcune intemperanze in ambito celebrativo dovute al pressapochismo e, qualche volta, all’ideologia. Non sono mancate le prese di posizione dei vescovi e del Magistero universale. Papa Francesco nella lettera Desiderio desideravi non ha esitato ad attribuire alcuni stili presidenziali ad «un esasperato personalismo dello stile celebrativo che, a volte, esprime una mal celata mania di protagonismo» ( dd n. 54), interventi invasivi sulla forma rituale consegnata dalla Chiesa che si configurano come veri e propri “maltrattamenti” delle assemblee.

Recentemente il Dicastero per la dottrina della fede con la Nota Gestis verbisque è ritornata sul tema in relazione alla problematica della validità dei Sacramenti. La Nota nasce dalla constatazione di alcune celebrazioni sacramentali invalide in quanto non svolte nella fedeltà ai riti prescritti dalla Chiesa; tali scelte celebrative sono motivate in taluni casi da sincere preoccupazioni pastorali e più frequentemente da una deriva soggettivistica non scevra da una carenza formativa sul senso e sulle dinamiche dell’agire simbolico.

La custodia del Dono


In gioco è la custodia del Dono che ogni celebrazione liturgica, soprattutto sacramentale, porta con sé. Soltanto la dimenticanza del fatto che ogni Sacramento è innanzitutto un dono, che viene da altrove, può permettere e giustificare interventi sconsiderati nella celebrazione. La coscienza che il Sacramento è un dono pone chi lo celebra, ministri e assemblee, in una posizione del tutto particolare, come evidenzia il prefetto del Dicastero, il cardinale Víctor Manuel Fernández, nel testo di presentazione: «A noi ministri è pertanto richiesta la forza di superare la tentazione di sentirci proprietari della Chiesa. Dobbiamo, al contrario, diventare assai recettivi davanti a un dono che ci precede». Infatti, «la Chiesa è “ministra” dei Sacramenti, non ne è padrona. Celebrandoli ne riceve essa stessa la grazia, li custodisce e ne è a sua volta custodita» (n. 11). Ribadendo la necessità per ogni assemblea celebrante di riferirsi agli elementi essenziali di materia, forma e ministro, quali «elementi costitutivi del Sacramento, la Nota dichiara l’indisponibilità della Chiesa di intaccare la struttura “minima” di ogni azione sacramentale e che attiene alla «sostanza divinitus instituta» (n. 12).

Una comprensione non minimalistica


È chiaro che in gioco non è e non può essere un approccio minimale all’azione liturgica visto che questa «non costituisce un ornatus cerimoniale dei Sacramenti e nemmeno una didascalica introduzione alla realtà che si compie» (n. 20), ma l’avvenimento nuovo della salvezza che si dà attraverso la mediazione di segni sensibili. Da qui — e quanto afferma la Nota a questo proposito non può essere ritenuto un aspetto secondario — «la necessaria sollecitudine per gli elementi essenziali dei Sacramenti, dai quali dipende la loro validità, deve pertanto accordarsi con la cura e il rispetto dell’intera celebrazione, in cui il significato e gli effetti dei Sacramenti sono resi pienamente intelligibili da una molteplicità di gesti e parole, favorendo in tal modo l’actuosa participatio dei fedeli» (n. 20). L’intellectio peculiare dell’Eucaristia che si dà per ritus et preces ( sc 48) è in primo luogo uno sguardo sul Sacramento che avviene attraversando le logiche composite e plurali dei linguaggi e delle strutture rituali, ma del resto è anche accettazione da parte della Chiesa celebrante che il rito abbia una vera e propria autorità. È il rito che può sempre rivolgerle una parola “prima” e autorevole su che cos’è l’Eucaristia in quanto convocazione, ascolto della Parola, rendimento di grazie, memoria, comunione ai santi doni. Si tratta di forme articolate, irriducibili ad un minimo essenziale, e che proprio per questo esigono un’azione autentica e ampia che non ammette né la manomissione arbitraria dell’ordo ecclesiale, né l’impoverimento della sua attuazione a causa di un minimalismo teorico e pratico.

Il teologo francese Louis-Marie Chauvet ha parlato di rinuncia al potere o al controllo (demaitrîse) per designare l’atteggiamento teologico con il quale si riconosce che Dio rimane sempre oltre le nostre pretese e, tuttavia, proprio grazie alla mediazione rituale, corporea e “opaca”, Dio rimane ancora Dio, non un prodotto della nostra mente, e diviene pur sempre accessibile. Il dono di grazia è oltre il rito, eppure ha nel rito una mediazione decisiva. Di conseguenza, la celebrazione se vuole rimanere connessa al Signore non può disattendere l’ordo della Chiesa e, tuttavia, la Chiesa deve saper mettere in atto l’ordo con tutta la delicatezza e la maestria che convengono alla grandezza del Dono e alle leggi di quel medium che è il rito.

Il potere sulla liturgia


La Nota del Dicastero afferma che la modifica della forma celebrativa di un Sacramento costituisce un vulnus inferto alla comunione ecclesiale e alla riconoscibilità dell’azione di Cristo (cfr. n. 22) e questa è la ragione per cui già sc 22 affida all’autorità ecclesiastica il compito e la responsabilità di regolare la liturgia e di introdurre eventuali variazioni. La limitazione di un potere sulla liturgia intende salvaguardare sia l’unità della Chiesa che il legame con l’actio Christi. È importante osservare come lo stesso magistero conciliare ponga alla base dell’opera di riforma «le leggi generali della struttura e dello spirito della liturgia» ( sc 23). Ora, è evidente che accanto ad una ragione ecclesiologica e cristologica, a impedire ogni esercizio di potere nella liturgia vi è una ragione intrinseca alla stessa ritualità. È nella natura del rito il fatto di essere innanzitutto “ricevuto” e quindi da ripetere, alla stregua del kerigma (cfr. 1 Cor 11, 23 e 15, 1). Tale aspetto marca una necessaria distanza tra il rito e le attese immediate dei partecipanti; è piuttosto il rito a suscitare un sentimento inedito o a provocare la conversione nel cammino dell’uomo. Questo dato tradizionale si è scontrato negli ultimi decenni con la tendenza a ripensare la celebrazione ogni volta da capo, quasi a volerla deritualizzare, dimenticando che proprio perché il rito è “ricevuto” non ammette intromissioni ideologiche o interventi scriteriati.

Il potere della liturgia


Affidarsi al rito significa perdere il controllo su di esso. La partecipazione “attiva” alla liturgia e attraverso di essa al mistero è sempre ed innanzitutto una partecipazione “passiva” che libera da ogni ansia interventistica per lasciare che il rito si esprima e imprima il Dono nell’uomo che celebra. Grazie alle azioni rituali si realizza quella distanza tra Cristo e la Chiesa che permette alla Chiesa di riconoscere Cristo come suo principio e fondamento. Infatti, afferma ancora la Nota, l’idea che il presbitero presieda in persona Christi Capitis non «intende avallare una concezione secondo cui il ministro disporrebbe, in quanto “capo”, di un potere da esercitare arbitrariamente. Il Capo della Chiesa, e dunque il vero presidente della celebrazione, è solo Cristo» (n. 24). Celebrare significa porre in atto tutte le premesse simboliche affinché si dia il riconoscimento. Celebrare in autenticità significa sbarrare la via ad ogni possibilità di occultamento della centralità di Cristo a favore del protagonismo del ministro. L’unico “potere” di chi celebra è un poter fare per vivificare gesti, parole, sensazioni che sono ancora “dormienti” nel libro liturgico con tutto il tatto e la sensibilità necessari. In questo senso «la potestas del ministro è una diaconia» (ivi). Come afferma la lettera apostolicaDesiderio desideravi chi presiede non siede su un trono, non ruba la centralità all’altare e vi si accosta in atteggiamento umile e pentito perché deve fare spazio a Cristo e al suo dono salvifico (cfr. dd n. 60).

L’audemus dicere della preghiera cristiana è un umile audemus agere: nell’obbedienza all’ordo la fedeltà a Cristo e alla Chiesa, nel gusto per la forma rituale la piena fiducia nelle risorse della liturgia. Solo grazie a questa umile audacia «la virtus operante nei Sacramenti plasma il volto della Chiesa, abilitandola a trasmettere il dono di salvezza che Cristo morto e risorto, nel suo Spirito, vuole partecipare a ogni uomo» (n. 29).

*Istituto di Liturgia Pastorale “Santa Giustina” – Padova